L’evoluzione di un’acciaieria e il suo impatto sul contesto sociale: il caso di Taranto
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Sommario
- Introduzione
- Tra sviluppo e dipendenza
- La mobilitazione operaia e la “Vertenza Taranto”
- Privatizzazione e crollo di un modello sociale
- Ingiustizia ambientale e lotta per la salute
- Identità fratturate e disillusione politica
- Conclusione
Introduzione
All'inizio degli anni Sessanta, nell’ambito della strategia nazionale per industrializzare il Sud Italia, Taranto fu scelta come sede di un grande stabilimento siderurgico statale. La città non era nuova a strutture industriali e militari — ospitava già uno dei principali arsenali navali italiani — ma l’arrivo dell’acciaieria ILVA, costruita sotto la gestione di Italsider e dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), rappresentò un cambiamento radicale.
Dal 1965, anno della sua creazione, fino al 1975, l’impianto si espanse in modo impressionante, trasformando l’economia, la struttura urbana e il tessuto sociale della città. Migliaia di lavoratori provenienti da altre regioni del Sud si trasferirono a Taranto in cerca di lavoro, e nacque un nuovo quartiere operaio, il Tamburi, sorto proprio all’ombra della fabbrica.
Inizialmente, l’impianto fu accolto come simbolo di rinascita nazionale. Prometteva di trasformare la città nella “capitale meridionale dell’acciaio”, ridurre la disoccupazione e colmare il divario Nord-Sud — obiettivi centrali del progetto di modernizzazione post-bellica italiano. Tuttavia, si prestò poca attenzione all’impatto ambientale, alla sostenibilità economica a lungo termine e alla partecipazione della popolazione locale ai processi decisionali.
Tra sviluppo e dipendenza
Lo stabilimento siderurgico generò una fortissima dipendenza economica. Negli anni Settanta impiegava direttamente oltre 20.000 lavoratori e molti altri tramite subappalti. L’urbanizzazione si sviluppò in modo disordinato attorno all’impianto, spesso trascurando criteri fondamentali di sicurezza e salute. Le politiche economiche dell’epoca privilegiarono l’ILVA, a scapito di settori tradizionali come agricoltura, pesca e turismo.
Si affermò così un modello di mono-industrializzazione: istituzioni pubbliche, sindacati e media si allinearono alla narrazione dominante secondo cui “l’ILVA è la città”. Questo approccio scoraggiò ogni tentativo di diversificazione economica e rese la popolazione sempre più vulnerabile al potere industriale e politico. Il caso di Taranto divenne così un esempio emblematico di sviluppo imposto dall’alto, dove i benefici della crescita industriale furono anteposti al coinvolgimento democratico, alla sostenibilità ecologica e al benessere collettivo.
La mobilitazione operaia e la “Vertenza Taranto”
Nonostante i suoi “benefici”, la fabbrica divenne presto un luogo di conflitto. Tra la fine degli anni Sessanta e per tutto il decennio successivo, i lavoratori organizzarono proteste e scioperi per denunciare condizioni di lavoro pericolose, tanti casi di sfruttamento lavorativo, e mancanza di trasparenza.
Da queste lotte nacque la cosiddetta “Vertenza Taranto” — una mobilitazione complessa e di lunga durata che vide coinvolti non solo operai, ma anche studenti, attivisti locali e settori del clero. La vertenza culminò con la firma di accordi storici nel 1974 e 1975, che introdussero misure fondamentali come la rotazione delle mansioni, il monitoraggio delle emissioni ed un maggiore controllo da parte dei lavoratori sulle condizioni di sicurezza.
Questi accordi furono importanti non solo per il loro contenuto concreto, ma anche perché inserirono la lotta in un quadro più ampio di giustizia sociale e democrazia partecipativa — anticipando i temi oggi centrali della responsabilità sociale d’impresa e della giustizia ambientale.
Il movimento mostrò una crescente consapevolezza politica all’interno della classe operaia: lo sviluppo industriale non poteva più essere accettato a ogni costo. I lavoratori chiedevano di partecipare alle decisioni sul futuro della città e sulla gestione del rischio industriale.
Privatizzazione e crollo di un modello sociale
Negli anni Novanta, l’ILVA fu privatizzata e venduta al Gruppo Riva, un’impresa familiare priva di reali obblighi di trasparenza pubblica. Questa operazione si inseriva nel più ampio processo di liberalizzazione economica che ridisegnò il ruolo dello Stato in Europa e portò allo smantellamento di molte imprese pubbliche.
Il Gruppo Riva tagliò migliaia di posti di lavoro, sostituì i contratti a tempo indeterminato con rapporti precari e limitò fortemente l’azione sindacale. Un episodio emblematico fu quello della “Palazzina Laf”, dove alcuni operai che si erano opposti a demansionamenti ingiusti vennero isolati in un edificio senza incarichi né attività — una pratica poi riconosciuta dalla magistratura come “mobbing collettivo”.
Taranto divenne un laboratorio del capitalismo deregolamentato, dove la logica del profitto sostituì il precedente patto sociale. Il legame di comunità tra lavoratori, istituzioni e impresa si spezzò. Con i sindacati indeboliti e le istituzioni politiche compromesse, i cittadini si trovarono sempre più impotenti nel reclamare giustizia.
Ingiustizia ambientale e lotta per la salute
Negli anni 2000, l’impatto ambientale dell’ILVA non poteva più essere ignorato. I dati forniti dall’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale (ARPA) e dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) confermarono che Taranto aveva la più alta concentrazione di diossina dell’Europa occidentale.
Nel 2012, un’indagine giudiziaria portò al sequestro dell’area a caldo per reati ambientali, citando “danni ambientali e sanitari gravi e permanenti”. Questo evento ha segnato un punto di svolta nella vicenda, in quanto ha dato origine a una crisi sociale, politica e costituzionale che persiste ancora oggi. Negli anni successivi, il governo italiano è intervenuto con decreti legge (i cosiddetti “Salva-Ilva”) che hanno sospeso le azioni legali (dando così avvio a un conflitto con la magistratura) e mantenuto in funzione lo stabilimento, mostrando indifferenza nei confronti della salute dei cittadini e della sicurezza dei lavoratori — data la condizione fatiscente e pericolosa degli impianti — dando priorità esclusivamente ai propri interessi economici.
Nel 2019, la Corte europea dei diritti dell’uomo, in occasione della Causa Cordella e altri, condannò lo Stato italiano per aver violato i diritti dei cittadini residenti vicino all’ILVA. La Corte riscontrò la violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il quale sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, dovuta al fallimento dello Stato italiano nel prevenire adeguatamente i danni ambientali e sanitari, e dell’articolo 13, che garantisce il diritto a un rimedio effettivo, a causa dell’assenza di strumenti legali adeguati a tutelare i cittadini.
La sentenza evidenziò come le autorità italiane avessero privilegiato la continuità produttiva rispetto alla salute pubblica, ignorando prove scientifiche evidenti. L’ingiustizia ambientale di Taranto fu così formalmente riconosciuta come violazione dei diritti umani e come un fallimento dello Stato nel proteggere la popolazione da un danno evitabile.
Identità fratturate e disillusione politica
Oltre ai danni materiali, l’ILVA ha profondamente modificato il tessuto sociale della città. Da simbolo di orgoglio nazionale, la fabbrica è diventata emblema di sacrificio e tradimento. Intere generazioni sono cresciute all’ombra dell’impianto, costrette a scegliere tra lavoro e salute, tra il silenzio e la denuncia.
Uno studio del 1990 realizzato dal Centro Regionale per i Servizi Educativi e Culturali (CRSEC) documentava una diffusa frammentazione sociale e disimpegno civico. Il rapporto sottolineava come la presenza dominante dell’ILVA avesse indebolito i legami di comunità e ridotto la partecipazione democratica.
Infatti, a partire dagli anni ’90, con la perdita di credibilità delle istituzioni tradizionali, come i partiti politici e i sindacati, che non riuscivano ad affrontare adeguatamente le questioni ambientali e sociali, i movimenti populisti iniziarono a colmare il vuoto, offrendo soluzioni semplicistiche che scaturivano dalle frustrazioni pubbliche. Questo cambiamento ha contribuito a delineare un panorama politico in cui gli appelli a breve termine hanno oscurato possibili riforme strutturali a lungo termine, in cui le promesse di “modernità” non sono mai state mantenute e in cui la comunità locale ha continuato ad essere esclusa dalla possibilità di delineare il proprio destino.
Conclusione
Nonostante la sua storia, Taranto oggi è una città che deve guardare al futuro. Le organizzazioni della società civile, insieme alle associazioni locali, stanno già cercando in questi anni di promuovere un nuovo paradigma basato sulla giustizia transizionale — un approccio nato nei contesti solitamente post-bellici, ma sempre più usato in situazioni di danni strutturali di lungo periodo. In questo caso, giustizia transizionale significa riconoscere i danni subiti, dare voce alle comunità colpite e promuovere politiche di risanamento ambientale e responsabilità istituzionale.
Questo processo non si limita a soluzioni tecniche ma richiede una partecipazione attiva e inclusiva che dia voce e spazio a società civile, cittadini (in particolar modo quelli che vivono a ridosso della fabbrica e che sono quindi più vulnerabili ed emarginati), lavoratori e studenti o ricercatori genuinamente interessati al futuro di Taranto. Uno sforzo collettivo di questo tipo sarebbe fondamentale per definire il percorso rivoluzionario che Taranto dovrà inevitabilmente intraprendere — un percorso basato sulla riparazione del danno ambientale, con particolare attenzione alle aree contaminate, sulla riqualificazione dei lavoratori verso settori sostenibili, sulla democratizzazione delle politiche economiche e ambientali, e sul recupero della fiducia da parte della comunità locale.
Taranto, inoltre, potrebbe diventare un caso pilota per l’attuazione del Green Deal europeo, attraverso strumenti come il Just Transition Fund, garantendo però che la transizione ecologica non ripeta le ingiustizie del passato, che offre lezioni preziose per l’intero Mezzogiorno e per altre comunità che storicamente si confrontano con le eredità della monocultura industriale.
Solo quindi mettendo al centro della questione la giustizia — ecologica, sociale e intergenerazionale — sarà davvero possibile costruire per Taranto un futuro giusto e degno.