Libertà di espressione e negazionismo: il caso Perinçek c. Svizzera della Corte Europea dei Diritti Umani (2015)
Il ricorrente nel caso Perinçek c. Svizzera (n. 27510/08) è un esponente politico di nazionalità turca che, durante una serie di manifestazioni pubbliche avvenute in Svizzera tra maggio e luglio 2005, negava, innanzi tutto, la qualificazione giuridica di genocidio del massacro del popolo armeno avvenuto nel 1915 e, in secondo luogo, sosteneva che l'impero ottomano avesse avuto un ruolo marginale rispetto a quello assunto dalle potenze occidentali e dall'impero zarista. A supporto della tesi sostenuta, che definiva il genocidio degli armeni "una vera e propria bugia internazionale", apportava e distribuiva un documento scritto.
Il codice penale svizzero, all’articolo 261-bis, prevede il reato di discriminazione razziale anche in relazione al negazionismo del genocidio. Al comma 4, infatti, sono previste sanzioni per “chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia o religione o, per le medesime ragioni, disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l'umanità”.
In base al suddetto articolo, il 9 marzo del 2007 l’associazione Svizzera-Armenia, che tra le altre cose si occupa di sostenere azioni legali contro i negazionisti del genocidio armeno, ha presentato ricorso contro Perincek, in quanto “le sue tesi e i suoi discorsi risultavano razzisti e nazionalistici e non contribuivano al dibattito storico su quanto accaduto in Armenia nel 1915”.
Il ricorrente viene condannato dalle corti nazionali svizzere per negazionismo ad una pena pecuniaria di 3000 franchi, commutabili in 30 giorni di reclusione, e ad un risarcimento di 1000 franchi all’associazione Svizzera-Armenia per danni morali. Perinçek presentava ricorso alla Corte di Cassazione svizzera il 13 giugno 2007, che il 12 dicembre 2012 confermava la precedente sentenza.
Avendo esaurito i ricorsi interni, Perinçek sottoponeva il caso all'attenzione della Corte europea dei diritti umani (CtEDU), lamentando la violazione degli articoli 10 e 7 CEDU, che disciplinano rispettivamente la libertà di espressione e il principio di legalità in materia penale. Da un lato, infatti, egli sosteneva che la condanna da parte del tribunale svizzero per i suoi discorsi costituiva una limitazione al suo diritto alla libertà di espressione; dall’altro, che la formulazione dell’articolo 261-bis fosse troppo vaga per poter essere applicata al suo caso.
Il 17 dicembre 2013 una Camera della II sezione confermava (con maggioranza di cinque a due) la violazione dell’articolo 10 CEDU, non avvallando la difesa della Svizzera che aveva invocato l’applicazione dell’art. 17 CEDU in materia di abuso di diritto.
In particolare, la Corte giustificava la decisione sottolineando come la libera espressione di opinioni, anche circa argomenti delicati quali il negazionismo, fosse un elemento fondamentale da preservare in una “società democratica”, a meno che questa non sfoci nell’incitamento all’odio razziale. Nel caso di Perinçek, a parere della Corte, tale intento non era stato riscontrato. Inoltre, la caratterizzazione legale dei fatti avvenuti in Armenia come “genocidio” non poteva rientrare nelle competenze della Corte, che è chiamata solamente a verificare la violazione degli articoli della CEDU.
Su richiesta della Svizzera il caso viene rinviato alla Grande Camera, che emette la sentenza il 15 ottobre 2015.
La Grande Camera osserva che la condanna di Perinçek alla reclusione o al pagamento di una multa costituisce ovviamente una limitazione alla libertà di espressione. Resta tuttavia da determinare se tale limitazione rispetti il criterio di legalità, ossia che sia previsto dalla legge, che persegua un fine legittimo ed infine che la limitazione sia proporzionale al fine perseguito (criterio di proporzionalità).
I primi due criteri vengono soddisfatti in quanto la limitazione del diritto alla libera espressione trova fondamento nell’articolo 261-bis del codice penale svizzero, che criminalizza atti di discriminazione razziale, considerati lesivi della dignità umana, protetta dall’articolo 7 della Costituzione del 1999 . La CtEDU deve tuttavia determinare se la condanna da parte dei tribunali svizzeri sia proporzionale rispetto al fine perseguito.
La Svizzera giustifica il suo provvedimento sulla base di tre articoli della CEDU: l’articolo 16, che sancisce il diritto delle parti contraenti di imporre limitazioni alle attività politiche degli stranieri, l’articolo 8 che sancisce il diritto al rispetto della vita familiare e privata ed infine l’articolo 17 che vieta qualsiasi abuso dei diritti contenuti nella Convenzione che miri alla limitazione o alla violazione di altri diritti garantiti dal testo.
Per quanto riguarda l’articolo 16 CEDU, la Corte afferma che, in riferimento anche alla precedente giurisprudenza, esso debba essere applicato in senso restrittivo solo nel caso di “attività che influiscono direttamente sul processo politico” di un Paese (par. 122). Essendo gli incontri a cui Perinçek ha partecipato di natura divulgativa e non prettamente politica, l’articolo 16 non può trovare applicazione, nonostante il ricorrente sia un esponente politico.
La Corte successivamente conferma quanto affermato dai tribunali svizzeri in relazione alla riconducibilità dello scopo dell’articolo 261-bis al rispetto della dignità umana, prevista dall’art. 8 CEDU. Nella fattispecie, essendo i fatti del 1915 costitutivi dell’identità del popolo armeno, la loro negazione poteva essere assimilata ad una violazione della loro dignità. Il diritto alla dignità umana e il diritto alla libera espressione sono ugualmente protetti nell’ambito della CEDU. Tuttavia è necessario “prendere in considerazione l’importanza relativa di aspetti concreti di questi diritti (...) e la proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo che si intende raggiungere” nell’ambito della loro protezione e limitazione (par. 228). La Corte deve quindi determinare se nel caso specifico i discorsi di Perinçek fossero lesivi della dignità del popolo armeno. Citando la giurisprudenza precedente, la Corte afferma l’importanza di intendere le limitazioni all’articolo 10 CEDU in senso restrittivo. Secondo la Corte le affermazioni del ricorrente non possono essere assimilabili a “crimini d’odio” (hate speeches), in quanto risultava mancante la componente di incitamento all’odio, alla violenza o alla discriminazione (par. 240) o la “capacità, diretta o indiretta, di produrre conseguenze negative nei confronti del popolo armeno” (par. 207). Pertanto, la Corte conferma la violazione dell’articolo 10 CEDU da parte della Svizzera.
Il caso risulta suscitare particolare interesse dal momento che la risoluzione dello stesso ha posto l'organo giuridico nell'obbligo di trovare un contemperamento di due diritti fondamentali garantiti dalla presente Convenzione: il diritto della libertà di espressione, e il diritto alla tutela della dignità del popolo armeno. La Corte tuttavia si è dimostrata divisa sul verdetto finale, e diversi giudici hanno presentato dissenting opinion sul caso.
I giudici Spielmann, Casadevall, Berro, De Gaetano, Sicilianos, Silvis e Kuris hanno affermato che il genocidio degli armeni costituisce un fatto storico comprovato che non può essere messo in dubbio. Le affermazioni di Perinçek vanno al di là del dibattito storico, andando a denigrare la dignità del popolo armeno e a negare una pagina tragica della storia moderna. Inoltre, i giudici esprimono la loro preoccupazione riguardo alla diversa considerazione che altri genocidi, come quello degli ebrei, hanno avuto nella giurisprudenza della Corte. In altri ricorsi presentati contro Francia, Austria, Belgio e Germania, il negazionismo del genocidio era stato criminalizzato in quanto implicante, nello specifico contesto storico e sociale, un’ideologia anti-democratica e anti-semita, impedendo l’applicazione dell’articolo 10 CEDU. I giudici temono che questo diverso approccio possa fare intendere che lo stesso crimine assuma un peso e una gravità diversi in base a dove e contro chi sia stato commesso, la qual cosa va contro lo spirito e lo scopo della Convenzione stessa.
Infine, il giudice Nussberger, presenta alcune critiche rispetto al ragionamento della Corte. Questa, pur non avendo competenza nello stabilire la veridicità storica dei fatti, ha indirettamente espresso un giudizio circa la caratterizzazione di quanto avvenuto nel 1915 come genocidio. Questo approccio contrasta con quello adottato nei casi riguardanti il negazionismo della Shoah.