Libertà di Movimento, Diritto all’istruzione e allo Sviluppo Personale
Sommario
- I campi per rifugiati e richiedenti asilo: un’ordinaria eccezionalità
- Il diritto alla libertà di movimento: tra norme di legge ed esperienze e percezioni dei minori stranieri non accompagnati
- Il basilare diritto all’istruzione tra diritti umani, diritti dei rifugiati, prassi, esperienze e percezioni dei minori stranieri non accompagnati
- Sviluppo e crescita personale nel cuore di una doppia transizione: le percezioni dei minori stranieri non accompagnati in relazione alla permanenza nei campi
- Conclusioni
Il presente articolo si propone di analizzare esperienze e percezioni di minori stranieri non accompagnati in relazione alla propria più o meno prolungata permanenza all’interno di campi per rifugiati e richiedenti asilo. Nella fattispecie, si fa riferimento a minori lungo la Rotta Balcanica la quale, pur essendo stata ufficialmente chiusa nel 2016 attraverso la firma dell’accordo tra Turchia ed Unione Europea, continua ad essere terreno di rotte migratorie.
L’obiettivo è di verificare se al riconoscimento legale dei diritti umani al libero movimento, all’istruzione e allo sviluppo personale corrisponda un’effettiva protezione all’interno dei centri d’asilo. L’articolo si basa su un’analisi qualitativa svolta - attraverso interviste approfondite - all’interno del centro d’asilo di Bogovađa, in Serbia. Le risposte dei partecipanti sono state analizzate attraverso la lente di esperienze e percezioni personali concernenti: il diritto alla libertà di movimento all’interno e al di fuori dei campi per rifugiati e centri d’asilo transitati lungo la rotta; lo sviluppo personale di ognuno nell’ottica di una “doppia transizione”, da un lato la transizione dall’infanzia all’età adulta, e dall’altro lo spostamento dal proprio Paese d’origine ad un Paese di rifugio nell’Unione Europea; il diritto all’istruzione in relazione alla possibilità di aver accesso a programmi di istruzione formale o informale mentre nei campi.
I campi per rifugiati e richiedenti asilo: un’ordinaria eccezionalità
La migrazione costituisce un fenomeno naturale ed inarrestabile da tempi immemori e, a seconda di diverse circostanze caratterizzanti specifiche aree geografiche nel corso dei secoli, si è assistito ad aumenti o diminuzioni nel numero di sfollati nel mondo. Conflitti, violenza diffusa, violazioni di diritti umani, incertezza alimentare e privazioni materiali, disastri naturali e la volontà di cercare sicurezza all’interno di un altro Paese costituiscono dei push-factors; tuttavia, nel tentativo di identificare le radici e le conseguenze dei fenomeni migratori, risulta necessario individuare l’equilibrio esistente tra i fattori di spinta e i fattori di richiamo che, di fatto, determinano le traiettorie e la riuscita dell’intero processo migratorio.
Oggigiorno, le rotte migratorie intraprese dai migranti si caratterizzano per una crescente arduità: la chiusura delle frontiere e la militarizzazione delle stesse, congiuntamente alla necessità di affidarsi a reti di trafficanti, sono tra i fattori che contribuiscono all’esposizione dei migranti a rotte sempre più dispendiose in termini di denaro (pagato ai trafficanti per l’attraversamento illegale delle frontiere) e tempo. Inoltre, è innegabile la responsabilità delle politiche adottate dai vari governi nella definizione del processo migratorio delle persone in movimento e, tra queste, anche la politica dell’encampment.
Ciò definisce la decisione dei Paesi di ricezione o mero transito di locare rifugiati e richiedenti asilo in campi profughi o centri di ricezione e transito. La ratio dietro lo stabilimento di campi e insediamenti formali è da ricercare nella necessità di fornire assistenza umanitaria in un contesto emergenziale, come identificato nella definizione di campo di rifugiati dell’UNHCR. Va da sé che i campi rappresentano misure eccezionali e temporanee, le quali dovrebbero essere dismesse una volta superato il carattere emergenziale della data situazione, così da accompagnare poi richiedenti asilo e rifugiati verso un processo di integrazione personale, sociale ed economica nel Paese di accoglienza. Tuttavia, la temporaneità di tale misura è stata/è spesso ovviata dalla scelta di mantenere attivi tali campi, innescando un circolo di perplessità e criticismi circa l’effettiva protezione dei diritti umani in contesti vulnerabili.
Eppure, la temporaneità non è l’unico aspetto da tenere in considerazione quando si discutono ruolo e finalità dei campi: anche il concetto di spazialità rappresenta, infatti, un aspetto controverso dell’intera questione. I campi sono solitamente lontani dal centro città, spesso delimitati da recinzioni o boschi, rappresentando quindi una netta demarcazione tra il “dentro” e il “fuori”, tra il “noi” e “loro”, definendo la posizione di chi risiede all’interno dei campi come una mutua inclusione ed esclusione nella società di accoglienza, e determinando un cosiddetto “spazio di eccezione”. Indubbiamente, la posizione di tali strutture in aree remote o in prossimità delle frontiere ha implicazioni su ambo i fronti: da una parte, per richiedenti asilo e rifugiati può rappresentare un limite per la massima fruizione del proprio diritto alla libertà di movimento, dal momento che molto spesso la protezione dei propri diritti risulta in pratiche labili in contesti considerati eccezionali e temporanei; d’altra parte, per i Paesi di destinazione, la scelta di isolarli fuori dai centri cittadini rappresenta un chiaro tentativo di finzione che essi non esistano e, allo stesso tempo, di esercitare un preciso controllo su chi è spesso percepito come una minaccia. Ma, come sostenuto da alcuni accademici, ciò non porta che all’emersione di uno “spazio contraddittorio”: i campi sono uno strumento intenzionalmente adottato per rendere i rifugiati invisibili agli occhi della società ospitante/accogliente, ma ciò non fa che renderli altamente visibili dal momento che divengono il fulcro di specifici programmi umanitari, oltre che soggetti di un regime internazionale di assistenza.
Il diritto alla libertà di movimento: tra norme di legge ed esperienze e percezioni dei minori stranieri non accompagnati
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (UDHR), considerata la pietra miliare della legge sui Diritti Umani, è il primo documento internazionale non giuridicamente vincolante in cui è rintracciabile una definizione di "libertà di movimento" (art.13). Tuttavia, il carattere non giuridicamente vincolante della dichiarazione ha indotto ulteriori sviluppi in materia di diritti umani e diritti dei rifugiati, nella misura in cui tale diritto è ora riconosciuto in un'ampia gamma di strumenti a tutti i livelli di governance.
Ai partecipanti è stato chiesto di esprimere la loro personale comprensione di tale diritto sulla base di esperienze e percezioni in relazione alla possibilità di muoversi liberamente all'esterno dei campi sulla base delle regole stabilite dalle autorità, e alla posizione remota dei campi transitati. In generale, è emerso che le regole applicate nelle strutture ricettive transitate durante la rotta non sono state percepite come un ostacolo al godimento della propria libertà di movimento; piuttosto, sono state percepite come un fattore protettivo da pericoli al di fuori dei campi, in particolare dai trafficanti ai quali i minori non accompagnati si affidano per raggiungere il proprio Paese di destinazione. La perifericità delle strutture non sembra rappresentare di per sé un ostacolo. Tuttavia, la necessità di fare affidamento su mezzi pubblici o privati per raggiungere le città o i centri cittadini più vicini, insieme alla massiccia presenza di polizia nelle strade, sono stati indicati come due fattori ostacolanti il pieno godimento del diritto in questione. Quasi la totalità dei partecipanti ha dichiarato di aver avuto almeno un'esperienza diretta o indiretta di negato accesso sugli autobus, di richieste di una maggiore somma di denaro da parte dei tassisti; ed anche il numero di casi di partecipanti costretti a tornare nei campi dopo essere stati fermati dalla polizia è stato notevole.
Il basilare diritto all’istruzione tra diritti umani, diritti dei rifugiati, prassi, esperienze e percezioni dei minori stranieri non accompagnati
In materia di minori in movimento - siano essi accompagnati o meno - gli effetti del processo migratorio necessitano di essere interpretati anche alla luce della mancanza di istruzione, che, inevitabilmente, segna le loro prospettive di vita. L'UNHCR ha sottolineato che il diritto all'istruzione è un diritto umano che dovrebbe essere protetto e adempiuto in qualsivoglia circostanza, dunque anche in situazioni di crisi, soprattutto in considerazione del ruolo fondamentale che l'istruzione potrebbe svolgere nel promuovere e facilitare l'integrazione nei Paesi di destinazione. Ancora una volta, l'UDHR è stata un faro nel plasmare il diritto all'istruzione, il quale è poi stato formalizzato in una vasta gamma di documenti legalmente vincolanti a livello internazionale, come, tra l'altro, la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo Status dei Rifugiati, l'ICCPR, UNCRC, CADE.
Ai partecipanti è stato chiesto di definire oggettivamente le opportunità educative formali e/o informali - se presenti - offerte nei campi transitati durante il proprio percorso migratorio, e di descrivere soggettivamente quale impatto ritengono che il mancato accesso ad opportunità educative potrebbe avere sulla propria vita sia nel breve che nel lungo periodo. Ciò che è emerso è un rapporto dicotomico tra le copiose disposizioni legali e la loro attuazione pratica. Inoltre, le percezioni dei partecipanti circa l'impatto nel breve e lungo termine appaiono contrastanti. Da una parte, la maggior parte degli intervistati non considera la mancanza di opportunità educative durante il processo migratorio come motivo di preoccupazione per il presente: i due motivi alla base di questo trend sono da ricercarsi nell'attenzione totalmente rivolta all'organizzazione di ulteriori steps per raggiungere la propria destinazione, e nella speranza di poter recuperare gli anni scolastici perduti una volta stabilitisi; d'altra parte, la quasi totalità dei partecipanti ha espresso timori per le conseguenze sul proprio futuro, ciò declinato in termini di potenziale difficoltà d'apprendimento una volta adulti e, di conseguenza, nel trovare un lavoro altamente qualificato e realizzare il proprio sogno professionale. Anche se, in generale, l'istruzione non appare come un fattore di spinta per lasciare il proprio Paese, ciò potrebbe rappresentare un fattore di attrazione nell’identificazione del Paese di destinazione. All'avvio del processo migratorio, la destinazione è spesso non pianificata, e dunque successivamente determinata sulla base di due principali fattori: opportunità occupazionali ed educative.
Sviluppo e crescita personale nel cuore di una doppia transizione: le percezioni dei minori stranieri non accompagnati in relazione alla permanenza nei campi
Nell'ampio contesto migratorio, gli adolescenti vivono una sorta di doppia transizione: da un lato, una transizione verso l'età adulta, cercando di plasmare la propria identità, credenze, progetti, meccanismi di difesa; d'altra parte, una transizione totalizzante verso una nuova realtà al di fuori del proprio Paese d'origine, entrando in un nuovo spazio con proprie regole, costruzioni temporali e spaziali, e in cui si ha necessità di trovare il proprio spazio d'integrazione.
Analizzando le risposte dei partecipanti, ciò che emerge è che la permanenza nei campi è principalmente percepita come un fattore negativo, ostacolo ad un processo di auto-sviluppo su cui ciò che incide maggiormente è un senso di solitudine e distanza dalle famiglie, congiuntamente alla mancanza di opportunità educative e alla condizione di disoccupazione. Per ciò che concerne il ruolo degli operatori sul campo, pur riconoscendo il valore dell'assistenza materiale e pratica da essi fornita, la maggioranza dei partecipanti ha dichiarato di non percepire alcun sostegno e aiuto sostanziale in termini di crescita e sviluppo personale. Tuttavia, se si mettono in relazione la perifericità dei campi e la possibile crescita personale nel periodo di permanenza, il risultato per i minori intervistati sembra essere positivo. Non solo lo percepiscono come un fattore di protezione dai trafficanti - dai quali sostanzialmente dipende la prosecuzione del proprio cammino verso l'Europa centrale e settentrionale - , ma anche dalle comunità locali, al fine di evitare l'emergere di scontri o episodi discriminatori.
Conclusioni
Lo scopo della ricerca nasce dalla necessità di comprendere - attraverso le parole degli stessi minori stranieri non accompagnati - se le politiche d’accoglienza dei minori nei campi forniscano o meno una risposta incentrata sulla protezione della persona e dei propri diritti. Sulla base delle esperienze e delle percezioni dei partecipanti, si potrebbe affermare che i campi si configurino come ambienti non adatti ai minori. Sebbene l'assistenza umanitaria materiale fornita all'interno delle strutture non possa essere messa in discussione - da declinarsi in termini di accesso ad alloggio, cibo, acqua e assistenza sanitaria -, quando si tratta dell’effettiva protezione e del rispetto di alcuni diritti fondamentali, il discorso sembra perdere d’efficacia. Se tra le disposizioni giuridiche e la prassi in materia di diritto alla libera circolazione all’esterno dei campi si possa identificare una certa coerenza, lo stesso non si può affermare circa il diritto all'istruzione.
Allo stesso modo, in relazione allo sviluppo personale dei migranti adolescenti - quando accolti in strutture di prima accoglienza - risulta essenziale non sottovalutare e trascurare il processo di crescita e di sviluppo che essi continuano ad attraversare, il quale dovrebbe divenire il fulcro dell'identificazione ed implementazione di politiche orientate in tal direzione, e non essere ulteriormente ostacolato, più di quanto il processo migratorio non faccia da sé. Di conseguenza, un'attenzione particolare dovrebbe essere dedicata all'individuazione di un ambiente sicuro e stimolante, che consenta ai minori di costruire e plasmare la propria identità e personalità, le proprie convinzioni e progetti futuri, e vivere - anche se per un breve periodo - in un contesto di sicurezza e tranquillità. Ciò che emerge dalle percezioni dei minori invece, è l'identificazione del campo come un ambiente sterile all'interno del quale sono costretti a trascorrere del tempo organizzando i successivi steps della propria traiettoria migratoria che li porterà - si spera - nel Paese di destinazione. Pertanto, l'identificazione e l'implementazione di progetti e politiche basate sulla protezione dei diritti dei minori dovrebbe iniziare dal considerare i minori non accompagnati in quanto minori in primo luogo - con bisogni e vulnerabilità esacerbate, nel quadro generale, dall'intero processo migratorio - e migranti non accompagnati e privi di documenti in secondo luogo. In realtà, ciò che dovrebbe essere primariamente tenuto in considerazione è che i minori non accompagnati sono portatori di ciò che è stato definito "svantaggio cumulativo": tale formulazione è utilizzata per definire in maniera esaustiva il retaggio che portano con sé una volta nel Paese di destinazione, consistente di una condizione di svantaggio antecedente all'abbandono del proprio Paese d'origine alla quale si somma lo svantaggio derivato dall'aver vissuto come migranti privi di documenti lungo la rotta.