Far cessare i combattimenti. Certamente, subito. Che cosa al loro posto? Certamente la politica, la diplomazia, la buona volontà. Ma occorre una proposta su cui lavorare, partendo dalla elementare premessa che occorre rispettare il diritto internazionale vigente, quello che ha le sue fonti principali nella Carta delle Nazioni Unite, nelle Convenzioni giuridiche sui diritti umani, negli Statuti delle principali Organizzazioni internazionali, compresa la Nato. Fino a quando queste leggi non saranno formalmente abrogate, i destinatari principali, gli stati, sono tenuti ad applicarle. Che si tratti di un “buon” diritto internazionale, ce ne danno conferma le formazioni di società civile operanti a fini di promozione umana dentro e fuori gli stati. La Carta delle Nazioni Unite e le Convenzioni sui diritti umani sono il paradigma giuridico cui le organizzazioni non governative e il volontariato di ogni parte del mondo fanno crescente e puntuale riferimento. La “guerra” in quanto tale è proscritta da questo diritto. Si vedano il Preambolo e gli articoli 1 e 2 della Carta delle NU. A conferma sta l’articolo 20 della Convenzione giuridica sui diritti civili e politici del 1966, ratificata dall’Italia nel 1977, che statuisce: “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge”. L’uso unilaterale della forza da parte degli stati è vietato con l’eccezione – rigorosamente circostanziata – delle azioni di “autotutela” per respingere un’aggressione armata. Esso è invece consentito alle Nazioni Unite sotto forma di operazioni di polizia militare internazionale. Nel caso in cui si attivino organismi regionali, come la Nato, ci deve essere l’autorizzazione espressa del Consiglio di Sicurezza (art.53 della Carta delle NU), fermo restando che anche l’azione ‘regionale’ deve essere a fini non di guerra ma di polizia.
Cosa sta allora succedendo? Perchè siamo dentro la guerra, cioè in una spirale perversa di illegalità e avventurismo? La prima risposta è che il Consiglio di Sicurezza è in una fase di stallo, a partire dalla messa fuori gioco di Boutros Boutros-Ghali che aveva inchiodato, senza peli sulla lingua, gli stati davanti agli obblighi assunti con la Carta delle Nazioni Unite. Vale la pena di ricordare che al Consiglio di Sicurezza, la sua riconferma a Segretario Generale ebbe quattordici voti su 15 e il veto degli Usa.
Se questa è la situazione, per il Kosovo cosa fare? Rilanciare il negoziato e con esso il diritto internazionale e le Nazioni Unite. Un elementare principio di tecnica negoziale è che ci sia la “volontà negoziale” delle parti in conflitto. Perchè questa ci sia effettivamente in tutte, occorre rendere accettabile a tutte la tavola negoziale. E perchè questo avvenga, la “tavola” deve essere autorevole. E perchè sia autorevole, deve essere rappresentativa e quanto più possibile sopra le parti. Nè il cosiddetto Gruppo di Contatto nè la Nato, stando così le cose, sono da soli idonei. Occorre fare entrare in gioco, da protagoniste, le Nazioni Unite e l’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Il cosiddetto accordo di Rambouillet contiene elementi utili, ma ha anche il difetto di essere la brutta copia degli Accordi di Dayton relativi alla Bosnia e Erzegovina. Il Kosovo, per quanto martoriato, è parte integrante della Repubblica Federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro), diversamente dalla Bosnia che era uno stato indipendente già prima degli Accordi di Dayton che sono del novembre 1995. Il problema del Kosovo, prima che un problema di indipendenza, è un problema di diritti umani e di garanzia dei medesimi, cioè di sicurezza individuale e collettiva dei suoi abitanti. Se questo è l’obiettivo principale, la cosa più urgente è quella di fare accettare e dispiegare sul territorio una forza di polizia militare internazionale di garanzia. Ma perchè questa venga accettata da Belgrado, legittimazione e comando del contingente devono essere assicurati dalle Nazioni Unite e dall’OSCE, da organismi cioè di cui sia la Jugoslavia sia la Russia sono membri. Ritirata della Nato, allora? Perchè no, se la posta in gioco sono la vita, i diritti umani e la legalità internazionale? Perchè non pretendere ragione e ragionevolezza da quegli stati che, giustamente, ne denunciano l’assenza nel presidente Milosevich? Quanto allo statuto del Kosovo, fermo restando il dato costituzionale della sua appartenenza alla Federazione jugoslava, si tratta di evidenziarne la natura di “territorio transnazionale”, con le conseguenti caratteristiche – già presenti nel documento di Rambouillet – della smilitarizzazione (che riguarderebbe sia l’esercito federale sia le formazioni militari albanesi), del primato del diritto internazionale dei diritti umani su qualsiasi altra legge, della presenza sul territorio di un ufficio di ‘autorità internazionale di garanzia’ delle Nazioni Unite, dell’apertura alle formazioni di società civile nazionali e internazionali. Il testo di Rambouillet prevede che, allo scadere di tre anni, si svolga un referendum. È questo uno dei punti rifiutati pregiudizialmente da Belgrado, perchè legittimerebbe la via all’indipendenza. Pro bono pacis, al posto del ‘referendum’ potrebbe più opportunamente prevedersi che la “tavola della pace” guidata dalle Nazioni Unite e dall’Osce faccia, dopo tre anni dall’entrata in vigore dell’auspicato accordo, un riesame generale della situazione del Kosovo.
L’idea di “territorio transnazionale” fornirebbe l’occasione per affermare un principio innovativo nell’ordinamento internazionale: quello secondo cui i territori in cui vivono, e devono convivere, popoli e gruppi etnici diversi, è “patrimonio comune dell’umanità” per ragioni ancora più alte di quelle che giustificano la salvaguardia dei monumenti e dei beni artistici sotto l’egida dell’Unesco. Il precedente del Kosovo sarebbe importantissimo per i tanti siti multi-etnici del mondo: tutti “patrimonio comune dell’umanità”! La Serbia dovrebbe avere un interesse maggiore alla salvaguardia internazionale di un suo un territorio così ricco di memorie storiche e religiose per la sua identità. Come procedere speditamente? L’iniziativa dovrebbe essere del Consiglio di Sicurezza, ma se ciò risultasse impossible – com’é probabile, per l’impasse in cui si trova –, si può pensare ad una “sessione speciale d’emergenza” dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ai sensi dell’articolo 20 della Carta. La si può convocare nel giro di ventiquattr’ore. Finora ce ne sono state dieci. La prima risale al 1956 (guerra del Canale di Suez) e fu indetta su richiesta della stesso Consiglio di Sicurezza. Ce ne fu una nel 1967 (guerra arabo-israeliana), su richiesta dell’ex Unione Sovietica. L’ultima è del 1997, sul problema di Gerusalemme e dei Territori occupati.
Chi dovrebbe attivare questa procedura? L’Italia – il cui Governo avrebbe l’esteso e incondizionato appoggio di ampi strati di società civile –, auspicabilmente con altri paesi dell’Unione Europea, certamente anche con la Russia. Non dovrebbe essere difficile trovare una maggioranza tra i 185 membri delle Nazioni Unite. Dalla sessione speciale dell’Assemblea Generale dovrebbe sortire la risoluzione di subito indire una Conferenza di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite. Vale la pena di ricordare che l’Assemblea Generale sta seguendo la “situazione dei diritti umani nel Kosovo”, come risulta dalle risoluzioni n.51/111 del 5 marzo 1997 e n.52/139 del 3 marzo 1998. È interessante il preambolo di questi documenti, ove si dice che l’Assemblea Generale è “guidata dalla Carta delle Nazioni Unite, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, dai Patti internazionali sui diritti umani, dalla Convenzione internazionale contro la discriminazione razziale, dalla Convenzione contro il genocidio, dalla Convenzione contro la tortura”. Come si vede, si fa riferimento puntuale ad alcune importanti fonti del nuovo diritto internazionale.
Orbene, se la guerra è vietata dal vigente diritto, se la guerra non paga come dimostrano questa ed altre avventure, se c’è sempre tempo per la pace, come autorevolmente ribadisce Giovanni Paolo II, bisogna trarne senza indugio le conclusioni operative. Per costruire e sostenere un ordine mondiale di pace non “imperiale” e giusta, non ci sono alternative ad una ONU messa in grado di funzionare democraticamente ed efficacemente. Che ci si convinca una volta per tutte che occorre incanalare gli sforzi politici e diplomatici in questa direzione, se non si vuole ricadere nell’ imbarazzo di momenti tragici come l’attuale.