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Ripensare la Gestione delle Frontiere e della Migrazione in Italia: una Strategia di De-securitizzazione

Questo articolo è un estratto della tesi di laurea magistrale discussa nel mese di luglio 2024, supervisori Prof. Olivier Ferrando e Prof. Paolo De Stefani
© Ludovica Mancini

Sommario

Introduzione

A partire dal 1975, anno che coincide con la trasformazione dell’Italia in un Paese di immigrazione, il nesso migrazione-sicurezza è divenuto il cardine della gestione italiana della migrazione e delle frontiere. Attraverso pratiche discorsive e non, la migrazione è stata trasformata da un tema apolitico, a politico, fino ad una problematica esclusivamente di sicurezza. Tuttavia, è realmente auspicabile securitizzare la migrazione? Dopo aver ricostruito il processo di securitizzazione in Italia e analizzato le sue principali conseguenze, questo articolo propone una disarticolazione del nesso migrazione-sicurezza attraverso lo sviluppo di una strategia di de-securitizzazione specifica per il contesto italiano.

La gestione securitaria della migrazione e delle frontiere in Italia

Attingendo agli studi critici sulla sicurezza, si intende per securitizzazione un processo consistente nel dislocamento di una determinata problematica, in questo caso la migrazione, nel campo della sicurezza: la migrazione viene presentata come una minaccia esistenziale che esige misure emergenziali e giustifica azioni al di fuori dei normali vincoli delle procedure politiche. Guardando al contesto italiano, fin dalla Legge Martelli 39/1990, il primo tentativo legislativo di disciplina della migrazione, la securitizzazione è stata realizzata con successo attraverso atti discorsivi, come dichiarazioni e documenti politici, e pratiche, come processi di frontiera e politiche di integrazione, messi in atto dai cosiddetti attori securitizzanti – l'élite governativa italiana – e facilitati da altri attori funzionali – mass media, forze dell'ordine, attori privati e di lobbying. Un'analisi storica di queste pratiche securitarie, discorsive e non, rivela che la gestione italiana delle frontiere e della migrazione si articola lungo tre direttrici principali: emergenza, sicurezza e criminalità. Per quanto riguarda la prima, la narrazione dell'emergenza, esemplificata dalla ricorrente evocazione della metafora dell'assedio e ricorso al campo semantico dell'invasione – si consideri lo slogan del ministro dell'Agricoltura F. Lollobrigida della “sostituzione etnica” – è stata accompagnata dalla decisione di imporre il Decreto-legge come fonte giuridica privilegiata per disciplinare la migrazione, dalla dichiarazione periodica dello “stato di emergenza” e dall'adozione di misure straordinarie. Tra queste, l'approccio hotspot del 2015 e le politiche di esternalizzazione: dall’accordo Berlusconi-Gheddafi del 2008, al Protocollo Italia-Albania del 2023.

Per quanto riguarda invece la sicurezza, il “pacchetto sicurezza” del 2009, convertito nella Legge 94/2009, ha istituzionalizzato il binomio “sicurezza pubblica – migrazione”, prevedendo, inter alia, la punibilità ex officio del reato di soggiorno irregolare o l’aggravante della clandestinità nel caso di reati commessi da sans papiers. Conseguentemente, si sono consolidati legami diretti tra la narrativa sulla gestione della migrazione e quella sulla sicurezza. Inoltre, questa securitizzazione discorsiva è stata coniugata a pratiche quali: il rafforzamento della polizia di frontiera e delle tecnologie di sorveglianza, l’archiviazione dei dati biometrici degli immigrati nel database di polizia AFIS, la normalizzazione della detenzione amministrativa, avvalendosi di uno strumento proprio del diritto penale, ossia la privazione della libertà, e la cooperazione militare transnazionale, siccome il ricorso alla sfera militare amplifica la percezione della minaccia. Ciò conduce inevitabilmente alla terza direttrice della governance migratoria italiana: la criminalizzazione degli immigrati, degli ingressi irregolari e delle operazioni di ricerca e soccorso (SAR) svolte dagli attori della solidarietà.

In questo quadro, la migrazione appare come “una dimensione fondamentale di una più ampia agenda sulla sicurezza”. Tuttavia, questi movimenti non determinano automaticamente il successo della securitizzazione, essendo essa un processo intersoggettivo. Infatti, determinante a tale fine è la sua accettazione da parte dell’audience – la popolazione italiana. Secondo l’ultimo Eurobarometro sull’opinione pubblica nell’Unione Europea, pubblicato nell’autunno 2023, in Italia, il 63% degli intervistati percepisce la migrazione come “totalmente negativa” o “molto negativa” e l’’80% è favorevole ad un rafforzamento delle frontiere dell’UE.

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Grafico n. 1: “Opinione Pubblica nell’Unione Europea”, QB7.2, QB6.2, fonte: Eurobarometro Standard 100

È quindi evidente che la presenza di immigrati suscita sentimenti di paura tra i cittadini italiani. Si radicalizza così l’opposizione binaria di ascendenza schmittiana tra l’amico – i cittadini – e il nemico, o persino l’hostis, il nemico assoluto – gli immigrati.

Tale accettazione non è però assoluta. Esistono contro-discorsi e contro-pratiche, sia in forma spontanea che strutturata, provenienti tanto dal basso – e.g. le azioni di advocacy delle organizzazioni non governative (ONG) – quanto dall’alto – e.g. le sentenze o le raccomandazioni degli Organi dei trattati delle Nazioni Unite che sfidano il processo di securitizzazione evidenziandone le criticità, in particolare rispetto alla conformità con il diritto internazionale dei diritti umani.

Le ripercussioni della securitizzazione

Nonostante l’istituzionalizzazione del legame tra migrazione e problematiche afferenti alla sfera della sicurezza – criminalità, ansia di alienazione culturale e squilibri sociodemografici – la sua immutabilità e auspicabilità sono oggetto di crescente contestazione dai contro-movimenti precedentemente menzionati. Essi evidenziano infatti la vulnerabilità dei migranti, le sfide legate all'integrazione e alla naturalizzazione e altri effetti collaterali come l'aumento della radicalizzazione e dell'estremismo politico. Tanto il “processo” di securitizzazione che il suo “esito” sollevano preoccupazioni. Infatti, il ricorso all'eccezionalità, manifestato da deliberazioni minime e accelerate, mina il parlamentarismo liberale e la democrazia, e riduce la trasparenza dei governi, de-responsabilizzandoli. L’“esito”, invece, ovvero la produzione del nemico, alimenta ulteriormente retoriche xenofobe e razziste e favorisce pratiche di esclusione sociale e sciovinismo del welfare.

Da una prospettiva più pragmatica, la securitizzazione comporta allarmanti violazioni dei diritti umani che si verificano durante il percorso migratorio nella sua totalità: dall’attraversamento delle frontiere fino alla naturalizzazione. Alle frontiere esterne italiane, le pratiche securitarie co-producono la vulnerabilità dei migranti, intrappolandoli in una condizione di insicurezza umana. Secondo l’UNHCR, nel 2023, su 150,000 persone sbarcate in Italia, 2000 risultano morte o disperse. Coloro che riescono a raggiungere le coste italiane si trovano in uno stato di “salvataggio senza protezione”: i richiedenti asilo respinti rimangono bloccati nell’irregolarità o sono rimpatriati, seguendo schemi di “mobilità verso e in insicurezza”, mentre i richiedenti asilo in attesa rimangono intrappolati in un limbo di “immobilità in insicurezza”. Ne sono prova il caso di J.A. e altri contro l’Italia (Ricorso n. 2139/18), o la sentenza 4557/2024 della Corte di Cassazione italiana. Alle frontiere italiane, i respingimenti indiretti, la privazione arbitraria della libertà, i trattamenti inumani o degradanti e le espulsioni collettive di stranieri non sono un’eccezione.

Gli esiti dei discorsi e delle pratiche securitarie si manifestano anche nelle fasi successive del percorso migratorio, coincidenti con l’integrazione e la naturalizzazione, e spesso pregiudicando il godimento dei diritti di seconda generazione da parte degli immigranti. Nonostante, secondo l’Istat, nel 2024, l’incidenza della popolazione residente con cittadinanza straniera raggiunga il 9%, l’Italia rimane uno degli Stati membri dell’UE con la legge sulla cittadinanza più restrittiva. La mancata ratifica della Convenzione Europea sulla Nazionalità ETS 166/1997, i requisiti selettivi per la naturalizzazione previsti dalla Legge 91/1992, emendata dalla Legge 132/2018, e l’assenza di una legge autonoma sull’integrazione e di una valutazione periodica delle politiche di integrazione contribuiscono alla securitizzazione attraverso l’imposizione di meccanismi di esclusione razziale. I migranti vengono depoliticizzati, esclusi dalla vita sociopolitica del Paese ospitante, e relegati allo status di outsiders permanenti.

De-securitizzazione – quadro teorico

Le sopramenzionate conseguenze della securitizzazione evidenziano l'urgente necessità di esplorare e promuovere alternative che reintegrino la migrazione nel discorso politico ordinario e smantellino la dicotomia amico-nemico. A questo proposito, assume una rilevanza cruciale la de-securitizzazione – il processo di ritorno delle questioni dalla ‘politica di emergenza’ alla ‘politica normale’, il contrario della securitizzazione. Infatti, una gestione delle frontiere e della migrazione de-securitizzata mitigherebbe, se non addirittura stroncherebbe, la violenza perpetrata dallo Stato sulla pelle dei migranti internazionali e offrirebbe inoltre la possibilità di “riordinare gli affari interni in termini più giusti”.

Tra le diverse declinazioni della de-securitizzazione, in termini di processo e agenti coinvolti, si dovrebbe privilegiare in primo luogo un approccio de-costruttivista. Inoltre, almeno nel suo stadio iniziale, la de-securitizzazione dovrebbe essere orientata al livello locale, poiché le relazioni tra comunità vengono rinegoziate reciprocamente proprio a questo livello. Ciò che segue, è una necessaria definizione degli agenti incaricati di innescare e dirigere il processo. Onde evitare la riproduzione di strutture egemoniche, dovrebbero essere gli stessi migranti, a rivestire il ruolo di agenti de-securitizzanti, perché se tale ruolo venisse svolto dall’élite governativa, il migrante continuerebbe ad essere l’oggetto su cui si applicano politiche dall’alto, piuttosto che esso stesso soggetto politico autonomo. Conseguentemente, l’elaborazione di una strategia ottimale di de-securitizzazione dovrebbe ricorrere ad approcci come quello dell’autonomia delle migrazioni, imponendo così il rigetto di quel nazionalismo metodologico spesso intrinseco allo studio delle dinamiche migratorie. Sul fondamento teorico dell’insurrezione dei saperi assoggettati di M. Foucault, la soggettività dei migranti dovrebbe essere riqualificata per destabilizzare e indebolire la “verità securitaria” retta dagli attori securitizzanti. Pertanto, i migranti dovrebbero essere riconosciuti come agenti artefici della trasformazione politica, dotati del potenziale per influenzare la concezione di “appartenenza”. Successivamente, dovrebbero essere re-identificati in una categoria titolare di diritti, permettendogli di acquisire lo status politico necessario per interagire con l’élite governativa attraverso processi deliberativi, penetrandola. Infatti, il successo di questo nuovo paradigma è condizionato dal cambiamento tangibile delle politiche e delle strutture che sorreggono la securitizzazione, motivo per cui i contro-movimenti dei migranti devono essere seguiti da iniziative retoriche e azioni politiche promosse dagli stessi attori securitizzanti.

De-securitizzazione – campi d’azione

In merito all'applicazione del quadro teorico precedentemente delineato, è possibile identificare due ambiti di intervento indirizzati alla concretizzazione di una gestione de-securitizzata delle frontiere e della migrazione: il ripristino della sicurezza umana nei processi di frontiera e il potenziamento della integrazione interculturale. Sebbene questi ambiti riguardino due fasi distinte del percorso migratorio, entrambi mirano a riformulare il concetto di frontiera: quella fisica e quella che si esprime nei meccanismi di esclusione sociale.

La relazione inversamente proporzionale tra sicurezza delle frontiere e sicurezza umana, unita all’esposizione dei migranti alle condizioni non democratiche delle frontiere, impongono un ripensamento della governance frontaliera attraverso il riconoscimento e la promozione del lavoro umanitario e politico svolto dalle organizzazioni non governative e della società civile. Infatti, entrambe queste azioni dal basso – e.g. il sostegno ai movimenti non autorizzati di persone o le attività di monitoraggio – mostrano un chiaro potenziale de-securitizzante. Privilegiando un approccio basato sui diritti umani, esse colmano le lacune umanitarie proprie dei processi di frontiera italiani e ne espongono le insufficienze, costruendo così una barriera contro le pratiche sistemiche di esclusione implementate dalle autorità governative. Inoltre, tali azioni, operano una re-introduzione delle problematiche migratorie nel dibattito pubblico, re-politicizzandole, con il fine di trasformare il regime di frontiera. Raggiungere questo obiettivo sembra però dipendere da una riformulazione di esso basata sulla concezione della libertà di movimento degli individui intesa come un diritto umano universale e su un approccio open-bordercon restrizioni legittimate solo in casi specifici. Sforzi di de-securitizzazione discorsivi devono però essere affiancati da misure concrete volte alla re-articolazione tanto del sistema di accoglienza italiano quanto delle procedure di asilo. Tra queste: l'abolizione di FRONTEX, la cessazione delle pratiche di detenzione in centri periferici, hotspots o CAS come metodo di accoglienza, l'implementazione di programmi di formazione specifici per gli agenti di frontiera – inclusi moduli sui diritti umani e sulle disposizioni legali contro la discriminazione razziale – e l'abrogazione delle procedure accelerate di frontiera e della lista di Paesi terzi sicuri.

Passando invece al secondo campo d’azione, l’integrazione interculturale presenta un’evidente potenziale de-securitizzante. Fondata su una concezione della diversità come risorsa e dell’interculturalismo come promotore di inclusione, ai sensi della raccomandazione CM/REC(2015)/1 del Consiglio d’Europa, l'integrazione interculturale contribuisce all’identificazione dei migranti come rientranti nell’‘appartenenza’. Essa riconosce i loro atti di resistenza – auto-organizzazioni dei migranti, proteste occasionali e mobilitazioni organizzate – come analitica del potere e catalizzatori della trasformazione sociale. Queste azioni collettive di resistenza, assieme alle azioni collettive di contestazione e di solidarietà, sono state definite dagli accademici E. F. Isin e G. M. Nielsen come “atti di cittadinanza”: auto-costituzioni dei soggetti come cittadini. Attraverso queste lotte per il riconoscimento, i migranti esclusi da quello che Hannah Arendt definisce “diritto ad avere diritti” – la cittadinanza formale – esercitano i loro diritti attraverso pratiche di cittadinanza, contribuendo in tal modo all’avanzamento del processo di de-securitizzazione.

Promuovere le politiche di integrazione interculturale appare quindi centrale. A tale fine, un’analisi dell’Intercultural Cities Index e del Migrant Integration Policy Index italiano suggerisce di concentrare l’attenzione sulla partecipazione sociopolitica dei migranti nella comunità ospitante. Inoltre, una tale scelta non si allinea solamente con l’Obbiettivo 16 del Global Compact on Migration, ma innesca anche la traslazione del discorso sulle dinamiche migratorie da una logica di ‘minaccia-difesa’ alla sfera pubblica ordinaria. Conseguentemente, due settori principali sono individuabili al fine di migliorare l’attuale quadro italiano: il potenziamento delle forme di partecipazione politica informale – riconoscendo l’agenzia dei migranti e il valore della diversità culturale – e delle forme di partecipazione politica formale – facilitando l'accesso alla naturalizzazione e ai diritti elettorali.

Tuttavia, tali interventi, assieme a quelli indirizzati all’incremento della sicurezza umana nei processi di frontiera, rimangono solo un primo passo per de-securitizzare la gestione delle frontiere e della migrazione in Italia. Numerosi altri sforzi devono essere intrapresi e determinante in questo senso sarà il lavoro del nuovo Parlamento Europeo.

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