Corte europea dei diritti umani

Sentenza della IV sezione della Corte europea dei diritti umani sull'uccisione di Carlo Giuliani (2009)

Foto panoramica della sede del Palazzo dei diritti umani che ospita la Corte europea dei diritti umani, Strasburgo.
© Consiglio d'Europa

La IV sezione della Corte europea dei diritti umani ha emesso, il 25 agosto 2009, una sentenza di condanna dell’Italia per violazione dell’art. 2 della Convenzione europea dei diritti umani, la norma che tutela il diritto alla vita, in relazione all’uccisione di Carlo Giuliani, nel corso degli scontri che hanno caratterizzato il summit del G8 di Genova, il 20 luglio 2001.
La Corte europea conferma (all’unanimità) che l’uccisione è avvenuta per legittima difesa e nell’ambito di un uso legittimo delle armi, come già ritenuto dal giudice italiano – che infatti non aveva rinviato a giudizio il giovane carabiniere che avrebbe sparato a Carlo Giuliani. La Corte riconosce anche (con cinque voti contro due) che la gestione della sicurezza e dell’ordine pubblico in un evento come il G8 rappresenta un impegno particolarmente gravoso e che lo Stato non ha complessivamente disatteso il suo dovere di proteggere il diritto alla vita di tutti coloro che si trovavano a Genova in quei giorni. La violazione, sul piano procedurale, dell’articolo 2, riscontrata da 4 giudici su sette, sta tuttavia nel fatto che su eventuali carenze organizzative o veri e propri illeciti che possono aver contribuito a causare la morte di Giuliani non c’è stata in Italia alcuna indagine. In particolare non si è verificato perché il carabiniere, ritenuto psicologicamente e fisicamente inadatto a continuare a prestare servizio in quella giornata, sia stato lasciato, in possesso di una pistola, nella jeep utilizzata nell’operazione in cui ha trovato la morte Carlo Giuliani.
Il giudice italiano, Vladimiro Zagrebelski, sostenuto anche dai giudici polacco e di Andorra, ha allegato alla sentenza una opinione in cui sostiene che la corte non avrebbe dovuto condannare lo Stato italiano. Il giudice inglese Bratza e quello slovacco Sikuta hanno allegato un’opinione in cui sostengono la responsabilità dello stato italiano anche per come ha pianificato e gestito l’ordine pubblico in tale circostanza.

La sentenza si riferisce ad uno dei vari procedimenti giudiziari che sono stati instaurati in Italia a seguito delle violenze del G8 di Genova 2001. Per una panoramica sui processi in corso, si veda, per esempio, il sito del Comitato Piazza Carlo Giuliani onlus, organismo che promuove l’informazione sui fatti del G8 2001.

Il punto forse di maggiore interesse nel caso portato davanti alla Corte europea era rappresentato dalla possibilità di rilevare la responsabilità dello stato italiano per carenze “strutturali” eventualmente emerse nel modo in cui l’insieme delle operazioni di mantenimento dell’ordine erano state pianificate e organizzate. La Corte doveva stabilire se il sistema messo in opera dalle forze dell’ordine a Genova fosse o meno adeguato a proteggere il diritto alla vita, nel senso di ridurre al minimo le probabilità che si potessero verificare eventi mortali come quello che, purtroppo, ha avuto luogo.

Il ragionamento della Corte può essere ricostruito nel seguente modo
a) In primo luogo si riconosce il carattere “multifunzionale” dell’operazione condotta dalle forze dell’ordine a Genova nei giorni del G8, l’estrema varietà di situazioni che posizioni e militari hanno dovuto fronteggiare, dovendo perseguire una pluralità di obiettivi.

b) Si evidenziano, inoltre una serie di circostanze critiche, errori di valutazione, interventi inadeguati, carenze organizzative, riguardanti situazioni più o meno connesse, in termini di vicinanza cronologica o di continuità dell’azione, con la morte di Giuliani. Per esempio, l’attacco portato arbitrariamente, poco prima delle tre del pomeriggio, contro il corteo delle “tute bianche”, e che ha provocato la reazione violenta dei manifestanti, non è certo in relazione diretta con l’uccisione di Giuliani, avvenuta a circa due ore di distanza. E tuttavia, la Corte sembra suggerire che qualche collegamento tra il modo in cui la situazione è stata gestita dalle forze dell’ordine e l’esito tragico della morte del giovane manifestante possa sussistere. Il personale di sicurezza, sotto stress a causa del duro confronto che aveva dovuto reggere, avrebbe dovuto essere allontanato dai luoghi “caldi”; ulteriori cariche contro frange di manifestanti esasperati si sarebbero dovute evitare; una maggiore attenzione, in generale, avrebbe dovuto essere prestata ad evitare ogni provocazione. La scarsa esperienza specifica di singoli agenti, le carenze di coordinamento tra le forze presenti sul terreno, avrebbero, a questo punto, contribuito al precipitare degli eventi.

c) Gli argomenti che dovrebbero indurre la Corte ad emettere un giudizio di censura dell’azione delle autorità statuali sono comunque sostanzialmente equilibrati da quelli che giustificherebbero un giudizio più benevolo sul loro operato.
Secondo il giudici Bratza (seguito dal collega Šikuta), l’esito tragico della giornata era prevedibile, e il rischio di cagionare la morte (anche solo accidentale) di qualcuno (agente o manifestante) è stato colpevolmente sottostimato o ignorato nel momento in cui i carabinieri, alle 17,20, effettuano l’ennesima carica della giornata.

La maggioranza della Corte (cinque membri contro i due citati) giudica in modo diverso. In mancanza di elementi decisivi a sostegno dell’una o dell’altra tesi emersa dall’indagine giudiziaria o da altre ricostruzioni dei fatti, essa conclude che “trovandosi a giudicare a distanza dai fatti, ha il dovere di essere prudente e di esimersi dal riesaminare gli eventi con il senno di poi”.

d) Il punto centrale messo in evidenza dalla Corte (e non accolto dai due giudici dissenzienti) è dunque che manca qualunque apprezzamento da parte degli inquirenti italiani in merito ad un possibile collegamento tra una difettosa pianificazione del sistema di sicurezza e ordine pubblico predisposto per il G8 e la morte violenta di Carlo Giuliani. E questo, per la ragione che la sola indagine realizzata in Italia intorno alla morte di Giuliani è stata quella, squisitamente penale, volta ad accertare la responsabilità individuale di Placanica e dei suoi commilitoni presenti sulla jeep. La conclusione della Corte europea è che se anche esistesse un legame diretto tra le carenze di pianificazione, organizzazione e gestione delle azioni di ordine pubblico e la morte di Giuliani, esso per la Corte sarebbe impossibile da accertare (§ 239).

e) La non-violazione da parte dell’Italia dell’obbligo di proteggere la vita umana nelle operazioni che comportano l’impiego della forza letale, è dunque ritenuta sulla base dell’impossibilità di sostenere positivamente il contrario; e tale impossibilità dipende dalla limitatezza dell’inchiesta condotta dalle autorità italiane, che si sono soffermate solo sul problema della resaponbilità penale dell’individuo che aveva sparato a Giuliani, senza curarsi di approfondire altre responsabilità a livello di comando e pianificazione.

Vista la base argomentativa che ha consentito alla Corte di evitare la condanna dell’Italia per violazione sostanziale dell’art. 2, appare praticamente inevitabile la condanna del nostro paese in relazione alla dimensione procedurale dello stesso articolo, più in particolare in relazione al requisito della adeguatezza (“adequacy”) che un’indagine effettiva (“effective investigation”) deve avere.

Come la giurisprudenza della Corte ha più volte ribadito, un’indagine effettiva deve presentare requisiti di “qualità” che vanno in due direzioni. In primo luogo, essa deve risultare “adeguata”, cioè idonea a portare all’identificazione e alla sanzione dei responsabili della morte di un individuo; si tratta di un obbligo di mezzi e non di risultato, naturalmente: alle autorità investigatrici si richiede di adottare tutte le misure ragionevoli a loro disposizione per acquisire le prove necessarie all’accertamento dei fatti: raccolta delle dichiarazioni dei testimoni, esami autoptici, perizie balistiche, ecc.. Le indagini in casi di sospetto omicidio commesso da agenti dello stato devono essere non solo approfondite (e quindi, per es., utilizzare le migliori metodologie e tutte le risorse tecnico-scientifiche concretamente disponibili), ma anche avere una estensione tale da portare all’accertamento di tutte le possibili responsabilità, non solo quelle degli agenti direttamente responsabili dell’evento mortale, risalendo la catena delle responsabilità.

Oltre al profilo dell’adeguatezza delle indagini, il rispetto del versante procedurale dell’art. 2 richiede altre garanzie legate più specificamente alle modalità della risposta delle istituzioni, sul piano investigativo e giudiziario. È richiesto che il personale che conduce i primi rilievi sulla scena dei fatti e raccoglie le prime testimonianze non dipenda gerarchicamente dalla stessa struttura a cui appartengono le persone da indagare: le indagini devono essere affidate senza indugio ad autorità di polizia dotate di poteri di supervisione sui colleghi, al di fuori pertanto di ogni rapporto di tipo gerarchico o istituzionale, ovvero altrimenti collegate agli individui coinvolti nei fatti, e l’autorità giudiziaria che guida l’azione investigativa, e che decide in merito all’eventuale apertura di un’azione penale, deve essere a sua volte indipendente dagli organi della polizia e non avere legami specifici con il personale incaricato delle indagini. Occorre inoltre assicurare la pubblicità del procedimento e in particolare la possibilità per i familiari della vittima di avervi accesso; indagini e processo penale devono avvenire in tempi ragionevoli e il loro avvio deve essere disposto automaticamente dalle autorità dello stato, e non deve dipendere dall’iniziativa dei familiari della vittima.

Secondo la Corte, lo Stato ha mancato all’obbligo positivo di approntare misure adeguate di protezione del diritto alla vita per il fatto di non aver proveduto ad indagare in modo completo sulle circostanze della morte di Giuliani, estendendo l’inchiesta non solo alle circostanze e alle persone immediatamente prossime all’evento letale, ma anche al contesto generale; in particolare: chi ha dato l’ordine di coinvolgere la jeep nella carica ai manifestanti? come mai non si è provveduto ad allontanare dal teatro degli scontri dei carabinieri in condizioni psicofisiche precarie? (§§ 252-254).

In aggiunta a ciò, i giudici di Strasburgo individuano un’altra carenza dell’azione investigativa, un difetto anch’esso attinente all’adequacy delle indagini, questa volta sotto il profilo della loro accuratezza. L’autorità giudiziaria ha errato nell’annunciare ai familiari di Carlo Giuliani l’avvio dell’autopsia sul cadavere del loro parente con sole tre ore d’anticipo (un lasso di tempo insufficiente a procurarsi un patologo di fiducia in grado di partecipare alla procedura); e ha errato anche nel dare due giorni dopo l’autorizzazione alla cremazione del corpo, sottratto in questo modo ad ogni ulteriore esame. Altri presunti difetti dell’indagine lamentati dai ricorrenti non sono presi in esame, dal momento che le carenze riscontrate già sono ritenute sufficienti a fondare un giudizio di responsabilità dello stato convenuto (§ 255).

La Corte stabilisce che lo stato italiano deve ai ricorrenti una somma a titolo di equa soddisfazione per il danno morale subito. I ricorrenti non avanzano alcuna quantificazione, e dichiarano che la somma andrà a sostenre una fondazione intitolata al loro congiunto. La Corte fissa una cifra di 40.000 euro. I ricorrenti nemmeno quantificano le spese processuali che dovrebbero essere loro rimborsate. In mancanza di elementi giustificativi, la Corte soprassiede alla loro determinazione.


La sentenza è impugnabile entro 90 giorni (tre mesi) davanti alla Grand Chamber. I ricorrenti – i familiari del giovane ucciso – hanno già preannunciato l’intenzione di fare appello.

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