“We are on a peace footing”: questa parola d’ordine è risuonata nella solenne cornice di Palazzo Ducale a Venezia durante la cerimonia di costituzione del Centro Inter-Universitario Europeo per i Diritti Umani e la Democratizzazione, alla presenza di Rettori, professori e studenti delle 27 prestigiose università europee che da sei anni gestiscono insieme il Master Europeo in diritti umani. La parola d’ordine apre alla speranza e all’impegno educativo, civile e politico da profondere, in un percorso democratico che vada dalla Città alle Nazioni Unite, per costruire un nuovo ordine mondiale saldamente fondato sul valore della dignità umana e sul corredo di diritti fondamentali che ineriscono alla persona.
Il terrorismo attenta gravemente alla vita e alla dignità e si alimenta, come ormai da tutti riconosciuto, nelle situazioni di estrema povertà in cui versano miliardi di esseri umani e di diffusa insicurezza anche all’interno delle società opulente. In un pianeta che è sempre più interdipendente e globalizzato – al positivo e al negativo –, le guerre, internazionali o interne che siano, non risolvono nulla, non sono premessa di pace. Nell’ultimo decennio del XX secolo, ci sono stati 220.000 morti per guerre fra stati e 3.600.000 morti per guerre dentro gli stati. Il numero dei rifugiati e dei profughi è aumentato del 50%. 2 miliardi e 800 milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno. L’1% della popolazione mondiale mondo concentra nelle sue mani un reddito annuale pari a quello di cui dispone il 57% nel suo insieme (dati statistici forniti dall’ultimo Rapporto annuale sullo Sviluppo umano, a cura del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo).
La prevenzione dei conflitti è una strada non soltanto eticamente consigliabile, ma anche razionale, vorrei dire obbligata, in termini di costi-benefici. La governabilità degli stati è in crisi ovunque. La situazione internazionale condiziona pesantemente la capacità degli stessi governi democratici di assicurare la “pace sociale” al loro interno. Ma nei giornali e sugli schermi televisivi si usano, con disinvolta irresponsabilità, il linguaggio e le immagini della “guerra”, violando l’obbligo contenuto nell’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, trattato ratificato anche dall’Italia nel 1977: “1.Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge. 2. Qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso, che costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza, deve essere vietato dalla legge”. Quanti conoscono questa norma internazionale, recepita dal nostro ordinamento? Evidentemente, non si vieta ciò che è lecito. La guerra è dunque vietata dal vigente diritto internazionale, quello che ha tra le sue fonti primarie la Carta delle Nazioni Unite e le Convenzioni internazionali sui diritti umani. La proscrizione del “flagello della guerra” è accoratamente proclamata nel preambolo della Carta. Per la risoluzione dei conflitti è vietato agli stati l’uso della forza ed è imposto l’obbligo della risoluzione pacifica (negoziato, conciliazione, giurisdizione). L’uso di strumenti coercitivi è riservato alle Nazioni Unite per obiettivi che, non potendo essere di ‘guerra’, ovvero di distruzione di uno “stato nemico” (governo, popolo, territorio), devono essere di ‘polizia’ e di ‘giustizia’, perseguite nel rispetto della legalità. L’articolo 51 della Carta riconosce agli stati il diritto di “autotutela individuale e collettiva” per respingere un “attacco armato” e nel tempo strettamente necessario perché il Consiglio di sicurezza adotti le misure che sono necessarie a mantenere la pace e la sicurezza. È dunque vietata, nei rapporti internazionali, la legittima difesa “preventiva”, ovvero “attaccare per primi”. Evidentemente, occorre che le Nazioni Unite siano messe nella condizione di gestire efficacemente un sistema di sicurezza collettiva che le vede nella posizione di massimo garante dell’ordine mondiale. In altre parole, gli stati hanno l’obbligo giuridico – prima ancora che politico – di far funzionare l’ONU. A questo fine occorre rilanciare il multilateralismo e le sedi istituzionali della cooperazione internazionale. Nel suo discorso del 12 settembre all’Assemblea generale, il Segretario generale Kofi Annan ha fatto una appassionata perorazione del multilateralismo: “Io sto davanti a voi come multilateralista, per abitudine, per principio, perché così vuole la Carta, e per dovere … Quando gli stati lavorano insieme nelle istituzioni multilaterali – sviluppando, rispettando, se necessario sanzionando il diritto internazionale – essi sviluppano anche reciproca fiducia …”.
“Siamo sul piede di pace”: con progetto, non soltanto con pur legittime e necessarie denunce di arroganze egemoniche e di comportamenti criminosi. Per quanto riguarda l’Irak, qualsiasi intervento unilaterale degli USA è illegittimo, occorre invece insistere sul ruolo pacificatore delle Nazioni Unite e sulle ispezioni all’interno di una più ampia strategia che preveda, come essenziali, i seguenti elementi: la revoca delle sanzioni, che stanno punendo la popolazione e non i governanti; un piano di aiuti con la collaborazione di organizzazioni non governative (con visibilità quindi del fattore ‘democrazia’); la imparzialità della Commissione ispettiva, che sarebbe garantita dalla partecipazione di rappresentanti del Gruppo dei 4, cioè ONU, Unione Europa, Usa e Russia (devono essere evitati i sospetti di ‘unilateralismo’, non del tutto infondati); il sostegno ad affidabili gruppi d’opposizione.
“Siamo sul piede di pace”. A sostegno di questa mobilitazione di ambienti qualificati del mondo accademico e di società civile, ben vengano gesti sapienziali, radicalmente profetici. L’auspicio dello scrivente, espresso in sincera umiltà, è che, da parte di chi ha la più alta autorità morale universalmente riconosciuta, venga solennemente proclamata la “scelta preferenziale della pace”, senza distinguere tra guerre giuste e ingiuste – la guerra è guerra –, argomentando in punto di pratica implementazione che pena di morte” e guerra sono incompatibili sia con il valore della dignità umana sia con i principi fondativi del vigente diritto internazionale, e che ci sono via alternative, possibilità reali – Nazioni Unite, altre Istituzioni internazionali, Corte penale internazionale, la fittissima rete di associazionismo transnazionale, ecc. – per perseguire obiettivi di sicurezza, di giustizia e di sviluppo umano.