inclusione

Un pranzo etnico è tante azioni di solidarietà internazionale

La giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese

Sommario

  • La giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese
  • 30 novembre, un pranzo di solidarietà
  • Una cucina condivisa a Perugia
  • La diplomazia della cultura e la diplomazia del cibo
  • Conclusioni
     

La giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese

Dal 1977, le Nazioni Unite hanno dichiarato il 29 novembre Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese (cfr. pagina ONU sulla giornata). La data non è casuale, il 29 novembre del 1947 infatti è stata votata la Risoluzione 181, quella che doveva dare avvio al processo di costruzione di due Stati per due Popoli. In questa data si svolgono annualmente eventi nelle sedi delle Nazioni Unite, si ricorda soprattutto il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, considerato che in questo punto si è pronunciata anche la Corte Internazionale di Giustizia, organo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite preposto a risolvere pacificamente i conflitti. Nel parere sul “muro israeliano” del 9 luglio 2004, la Corte al paragrafo 118 afferma che “per quanto riguarda il principio di autodeterminazione dei popoli, la Corte osserva che l'esistenza del "popolo palestinese" non può essere oggetto di discussione”. Il popolo palestinese esiste ed esisteva prima dell’occupazione inglese e prima della partizione del 1948. Ad oggi, in seno alle Nazioni Unite, dove partecipano i rappresentanti degli stessi Stati che non hanno fatto nulla per evitare il genocidio in atto, hanno perso una parte della loro forza, la situazione di Gaza pone giustamente in evidenza l’ambiguità di chi, continuando a supportare le azioni di Israele, partecipa poi agli eventi di solidarietà per il popolo palestinese. Ciò nonostante, la società civile mondiale continua a fare la sua parte, celebrando anche in questa data, ogni anno, la propria solidarietà verso il popolo palestinese con appelli, convegni, proiezioni e anche pranzi di solidarietà. È fondamentale che durante questa giornata vengano ricordati i diritti del popolo palestinese e anche gli obblighi, sanciti in numerose risoluzioni ONU, a cui Israele è chiamato a rispondere come ritirarsi dai territori palestinesi occupati in quanto la conquista dei territori con la forza è illegale, rispettare i confini territoriali del 1967, riconoscere ai rifugiati palestinesi il diritto al rientro.

30 novembre, un pranzo di solidarietà

Quest’anno, la Fondazione PerugiAssisi per la cultura della pace ha deciso di celebrare questa giornata con un pranzo di solidarietà che si poneva alcuni precisi obiettivi: in primis, chiedere Libertà per il popolo palestinese anche nell’esercizio del suo inalienabile diritto all’autodeterminazione sancito, oltre che dalla carta delle Nazioni Unite, dall’identico articolo 1 dei due Patti internazionali del 1966 rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali (cfr. appello per il 29 Novembre). Un diritto che oggi, dopo più di due anni di distruzione e morte a Gaza, è ancora più in pericolo a causa del piano di pace che il Presidente americano ha fatto approvare al Consiglio di sicurezza dell’ONU. Quel piano è, come già pubblicato dal Centro Diritti Umani, un piano di guerra e non di pace (cfr. articolo del 25 novembre).

In secondo luogo, la solidarietà passa dalle azioni concrete e quindi il pranzo aveva lo scopo di raccogliere i fondi necessari ad aiutare una famiglia della Parrocchia di Gaza, oggi rifugiata in Italia. Una bambina di quattro anni, un bambino di sette, una giovane mamma gravemente ferita dalle bombe e un altrettanto giovane padre che, insieme, vogliono ricominciare a vivere. Una famiglia gazawi che, dopo tutto l’orrore che facciamo fatica ad immaginare abbia vissuto, è riuscita a fuggire dalla Striscia e a giungere fino a Perugia. I fondi raccolti il 30 novembre serviranno proprio per aiutarli a stabilirsi nel capoluogo umbro e tentare faticosamente di ricostruire una normalità che da due anni a questa parte non esisteva più.

Al pranzo hanno risposto più di 270 tra cittadine e cittadini di Perugia e di tutta l’Umbria che, domenica 30 novembre, si sono riuniti a Pretola per mangiare insieme piatti tipici palestinesi e, tutti insieme, stringersi intorno a chi non ha più nulla. Con loro hanno partecipato associazioni e istituzioni cittadine, tra cui: l’Associazione per Pretola Aps; Giovani Musulmani d’Italia sez. di Perugia; Provincia di Perugia; Comune di Perugia; Coordinamento per la Pace Alta Valle del Tevere; Anpi di Marsciano; Articolo 21; Avis Perugia; Banca Etica Perugia; Still I Rise Umbria; Casa dei Popoli di Foligno e molte altre. Il lavoro fatto insieme è stato tanto, come sempre quando bisogna organizzare una sala, degli spazi, una cucina e dei servizi per un pranzo con così tanti partecipanti. Alla fine tutti hanno potuto mangiare e bere i cibi tipici della Palestina, grazie al grande lavoro fatto nella cucina condivisa da molte anime diverse (cfr. articolo pranzo).

Una cucina condivisa a Perugia

Una cucina condivisa a Perugia

In cucina, sotto la guida di Randa, palestinese che da Perugia coordina i lavori della Rete Nazionale delle Scuole di Pace, ci sono donne e uomini dell’Associazione per Pretola e quelle della comunità musulmana cittadina. Preparano un menù con vari piatti tipici perché la cultura di un paese passa dalla tavola e da ciò che si mangia insieme, è così che incontriamo l’hummus di ceci e il lebaneh con zeitoun. Ma troviamo anche delle pizze con condimenti palestinesi, ma con una base che è difficile non riconoscere come influenzata dalla cultura italiana e forse dalla mano di qualche perugino che si è mischiata alla maestria di Randa. Il pane invece, il khobez, è stato fatto cucinare direttamente da un forno libanese di Roma; i risi con le melanzane, i ceci e lo zafferano ci portano di nuovo in Palestina; alla fine sono i dolci con il thé a chiudere un pranzo che è come un viaggio nella cultura del mondo che in questo momento è la più minacciata di tutte. Un bel libro, uscito per Meltemi, ci fa fare proprio lo stesso viaggio per immagini nella cultura culinaria palestinese. Non mi sono stupito di ritrovare al pranzo i piatti di cui avevo letto in quella che non è una guida e nemmeno un ricettario, ma una vera e propria azione di protezione verso quelli che sono i sapori e le tradizioni palestinesi. Il libro, che si intitola “Pop Palestine” ed è stato scritto a quattro mani dalla foodwriter italiana Silvia Chiarantini e dalla foodwriter, interprete e docente palestinese Fidaa I A Abuhamdiya, diventa oggi un vero e proprio manuale per continuare a salvaguardare la cucina tradizionale palestinese e al tempo stesso ci serve per accorciare le distanze culturali che spesso, nonostante ci sia solo un pezzetto di mare di mezzo, ci sembrano insormontabili.

La diplomazia della cultura e la diplomazia del cibo

In quella cucina prima e in quelle tavolate poi si è dunque accorciata una distanza e questo ci porta facilmente ad una riflessione di studio e teorie internazionali. La riflessione parte da quelle che sono le definizioni classiche di diplomazia culturale e una delle sue branche, la diplomazia culinaria. La diplomazia culturale oggi viene usata nelle relazioni internazionali come strumento di soft power, superando anche la definizione più politicamente corretta di Cummings (2003) che la definisce come lo “scambio di idee, informazioni, arte, lingua e altri aspetti della cultura tra le nazioni e i loro popoli al fine di promuovere la comprensione reciproca e, di conseguenza, favorire il raggiungimento degli obiettivi di politica estera”. E di questo la Food Diplomacy è un’evidente sotto-categoria, essa rappresenta “l'uso strategico della cucina e del patrimonio culinario di una nazione per coltivare la comprensione interculturale, costruire relazioni e creare un'immagine nazionale favorevole” (Cabral et alt., 2024). Gli studiosi Luša & Jakešević (2017) ci ricordano infatti come il “cibo è un mezzo universalmente accessibile che trascende le barriere linguistiche e politiche, rendendolo uno strumento ideale per la proiezione del soft power”.

Se gli Stati quindi utilizzano la Cultural Diplomacy come uno strumento per far leva sui popoli ‘altri’ e non sempre generano risvolti positivi nelle popolazioni che la ‘subiscono’, sono le organizzazioni della società civile, quelle non governative, che attraverso la diplomazia culturale possono sviluppare delle vere e proprie azioni di costruzione della pace e di una società che sia arricchita e non spaventata dalle differenze. Le ONG, a differenza per esempio degli Istituti di Cultura nazionali, non rappresentano una linea governativa, hanno credibilità costruita sul campo, attraverso le azioni e spesso e volentieri hanno reti costruite sulla fiducia e su vera reciprocità di intenti.

E così, nello stesso modo, la diplomazia culinaria non è solo fatta di eccellenze esibite nelle cene di Gala delle Ambasciate o attraverso gli aiuti umanitari come strumento di pressione, ma possiamo considerare tale anche un pranzo solidale. Un pasto incentrato sulla comunità sfrutta il potere universale del cibo per un impatto più localizzato ed empatico. Sposta l'attenzione dall'eccellenza culinaria di una nazione ai suoi valori di compassione, ospitalità e umanità condivisa. Questi eventi fungono da iniziative di “micro-diplomazia”, fornendo una risposta tangibile e immediata ai bisogni umani e rafforzando i legami comunitari. Coinvolgendo i partecipanti nel processo di cottura e condivisione, favoriscono la comunicazione reciproca e il rispetto reciproco che possono contribuire alla mitigazione dei conflitti e alla coesione sociale a livello locale (Luša & Jakešević, 2017).

Conclusioni

In poche parole, possiamo chiamare Food Diplomacy anche quelle partiche solidali e comunitarie che vogliono includere pezzi della società che rischiano di restare ai margini e condividere così quel senso di giustizia sociale che spesso pensiamo che il mondo abbia perso.

Vedere mangiare insieme 270 persone, con diverse culture, diverse vite, ma con lo stesso piatto e lo stesso obiettivo di contribuire è sicuramente stato il grande successo del pranzo solidale del 30 novembre. Di questi pasti in questi mesi ne sono stati organizzati tanti, tutti con la stessa idea e tutti con lo stesso obiettivo finale: far conoscere meglio la cultura palestinese, proteggerla dagli attacchi e dai rischi che la violenza del genocidio in atto a Gaza sta mettendo a dura prova e dunque costruire un mondo più giusto e di pace dove i Diritti Umani si difendono a volte anche solo spezzando lo stesso pane (arabo) a tavola.

Parole chiave

inclusione giustizia economica e sociale solidarietà internazionale Diritto al cibo