Autodeterminazione, diritti umani e diritti dei popoli, diritti delle minoranze, territori transnazionali
Documento elaborato dalla direzione del Centro dell’Università di Padova e presentato alla Conferenza generale della Helsinki Citizens’ Assembly, HCA Bratislava, 25 e 29 marzo 1992. Testo originale in inglese.
l. Diritti umani e diritti dei popoli: il nuovo diritto internazionale
I diritti umani e i diritti dei popoli sono oggi riconosciuti dal diritto internazionale. La Carta delle Nazioni Unite stabilisce all’art. 1 che il rispetto dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei popoli costituisce uno dei fini principali delle Nazioni Unite. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del l948 specifica una prima lista di diritti umani e ne raccomanda il rispetto. I due Patti internazionali del 1966, rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, contengono norme giuridiche vincolanti sul piano mondiale. Questi due strumenti legali internazionali, insieme con altri strumenti quali le Convenzioni regionali europea, interamericana e africana, la Convenzione contro la discriminazione, la Convenzione contro la tortura, la Convenzione sui diritti dell’infanzia, costituiscono le fonti del diritto internazionale dei diritti umani, che è un diritto completamente nuovo. L’Atto finale di Helsinki del 1975, che è un importante accordo politico ma non un accordo giuridico in senso formale, recepisce le norme internazionali sui diritti umani e sull’autodeterminazione (v. principi VII e VIII).
Le norme giuridiche internazionali riconoscono che ogni essere umano ha diritti innati, quindi inviolabili, inalienabili e imprescrittibili, che preesistono dunque alla legge scritta. L’individuo è soggetto originario di sovranità e viene prima dello stato e del sistema degli stati. In virtù dei diritti che ineriscono egualmente a ciascuno dei suoi membri, anche la famiglia umana universale è soggetto collettivo originario che viene prima del sistema degli stati e del singolo stato. Alcuni diritti innati (all’esistenza, all’identità, all’autodeterminazione) sono riconosciuti anche alle comunità umane che hanno il carattere di popolo.
Individui e popoli sono dunque soggetti originari anche nel sistema legale internazionale e gli stati sono da considerarsi come entità complesse “derivate” anche nel sistema del diritto e della politica internazionale. I principali principi di questo nuovo diritto internazionale sono: il principio di vita; il principio di eguaglianza degli individui e dei popoli; il principio di pace; il principio di solidarietà; il principio di giustizia sociale; il principio di democrazia.
Un principio fondamentale per l’implementazione dei diritti umani è quello di interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani: civili, politici, economici, sociali, culturali; individuali e collettivi; dell’essere umano e dei popoli (...).
Le norme giuridiche internazionali sui diritti umani rafforzano il principio della soluzione pacifica delle dispute e quello del divieto dell’uso della forza stabilito dai paragrafi 3 e 4 dell’art. 2 della Carta delle Nazioni Unite.
Le norme internazionali sui diritti umani pongono il principio di autorità sopranazionale, come necessario per allestire e far funzionare efficacemente una appropriata struttura internazionale di garanzia.
In conformità con queste norme e principi, il principio di sovranità degli stati e di non ingerenza negli affari interni cede al principio di sovranità dell’essere umano e della famiglia umana universale, anzi non esiste più de jure. E’ pertanto coerente con la ratio delle norme giuridiche sui diritti umani il principio di ingerenza pacifica negli affari interni, come chiarito dallo Institut de Droit International (Risoluzione di Santiago de Compostela del 13.09.1989), dal Parlamento europeo (Risoluzione sui diritti umani nel mondo nel 1989 e 1990 e sulla politica comunitaria dei diritti dell’uomo, del 1991), dalla CSCE (Documento conclusivo della Conferenza sulla dimensione umana, Mosca 4 ottobre 1991), dal Consiglio di sicurezza (Risoluzione 688 dell’aprile 1991 per l’intervento umanitario a favore dei Kurdi), nonché dalla lettera del Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Italiana al Coordinatore della Commissione diritti umani della Helsinki Citizens’ Assembly.
Deve ritenersi che l’art. 2,7 della Carta delle Nazioni Unite che fa divieto di interferire negli affari interni degli stati, sia oggi abrogato dalle norme sui diritti umani quando si tratti di materia attinente alla “dimensione umana”. Esiste oggi una gerarchia tra le norme del vigente diritto internazionale. Al primo posto sono le norme e i principi sui diritti umani, in quanto norme di jus cogens o di super-costituzione. I diritti degli stati sono subordinati a questi principi fondamentali.
Laddove esista contrasto tra diritti umani internazionalmente riconosciuti e diritti degli stati, i primi devono prevalere. Perché non si creino conflitti, occorre che le istituzioni internazionali si adeguino. Il nuovo diritto internazionale costituisce ancora un corpo separato di principi e di norme, essendo alla ricerca della sua effettività. In questo momento è in atto la lotta tra vecchio e nuovo diritto internazionale, tra diritto delle sovranità statali armate e diritto dell’umanità. Il dibattito sul “nuovo ordine mondiale” sottende questa contrapposizione. L’opposizione a una ONU con autorità e potere sopranazionali e a un sistema paneuropeo di integrazione sopranazionale è fatta chiaramente dai sostenitori del vecchio diritto internazionale, i quali preferiscono forme di organizzazione “intergovernativa” e “multinazionale” delle relazioni internazionali e restano fedeli al concetto di sicurezza nazionale armata e quindi di statualità nazionale armata. La logica del nuovo diritto internazionale è antinomica rispetto a quella della frontiera.
Questo nuovo diritto è alla ricerca di convinti sostenitori. Questi non possono essere nè conservatori nè reazionari. Devono essere soggetti individuali e collettivi che credono nei valori umani e agiscono per la umanizzazione dei sistemi politici, legali, economici, dal quartiere all’ONU. Il nuovo diritto internazionale legittima ad agire per un nuovo ordine internazionale umano, che politicamente significa democratico e nonviolento, secondo l’art. 28 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati”.
2. Il diritto di autodeterminazione. Chi sono i “popoli”
Il tema dell’autodeterminazione dei popoli deve essere affrontato alla luce di questi concetti e di questi principi, tenendo soprattutto conto del fatto che il nuovo diritto internazionale dei diritti umani ha una ratio che è completamente diversa da quella del tradizionale diritto internazionale, che è un diritto essenzialmente interstatuale. L’Atto finale di Helsinki recepisce i principi di questo nuovo diritto - principi VII e VIII - e li pone in relazione con i principi del diritto interstatuale, in particolare con il diritto degli stati alla integrità territoriale. Questo “coordinamento”, per avere senso, deve essere effettuato sulla base dei seguenti principi:
1. primato dei diritti umani rispetto ai diritti degli stati: principio di jus cogens per l’implementazione dei diritti umani internazionalmente riconosciuti;
2. principio di soluzione pacifica delle controversie internazionali;
3. principio del divieto dell’uso della forza;
4. principio di cittadinanza planetaria;
5. principio di autorità internazionale;
6. principio di ingerenza attiva negli affari interni;
7. principio di sicurezza collettiva internazionale;
8. principio di democrazia, interna e internazionale;
9. principio di eguaglianza dei popoli.
Ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani, il soggetto titolare del diritto all’autodeterminazione è il popolo come soggetto distinto dallo stato. Ma in nessuna norma giuridica internazionale c’è la definizione di popolo. Questa reticenza concettuale non è dovuta al caso. Gli stati giocano sull’ambiguità, non essendo ancora disposti ad ammettere espressamente che i popoli hanno una propria soggettività internazionale. Per il concetto di popolo bisogna pertanto riferirsi a documenti ufficiali o semi-ufficiali privi di carattere giuridico. Un recente Rapporto dell’Unesco (Doc. SHS- 89/CONF. 602/7, Parigi, 22.02.1990) definisce il popolo come:
1. un gruppo di esseri umani che hanno in comune numerose o la totalità delle seguenti caratteristiche:
a. una tradizione storica comune;
b. una identità razziale o etnica;
c. una omogeneità culturale;
d. una identità linguistica;
e. affinità religiose o ideologiche;
f. legami territoriali;
g. una vita economica comune;
2. il gruppo, senza bisogno che sia numericamente considerevole (per es., popolazione dei micro stati), deve essere più che una semplice associazione di individui in seno ad uno stato;
3. il gruppo in quanto tale deve desiderare di essere identificato come un popolo o avere coscienza di essere un popolo -restando inteso che gruppi o membri di questi gruppi, pur condividendo le caratteristiche sopra indicate, possono non avere questa volontà o questa coscienza; e eventualmente
4. il gruppo deve avere istituzioni o altri mezzi per esprimere le proprie caratteristiche comuni e il suo desiderio di identità”.
H. Gros Espiell, uno dei maggiori esperti in materia, definisce popolo “qualsiasi particolare comunità umana unita dalla coscienza e dalla volontà di costituire una unità capace di agire in vista di un avvenire comune (...)”. Dunque, due sono gli elementi fondamentali che fanno un popolo e lo distinguono da altri tipi di comunità umane, quali le minoranze etniche, linguistiche o culturali e quelle comunità che nei documenti delle Nazioni Unite vengono denominate popolazioni autoctone: a) l’esistenza di un comune patrimonio culturale; b) l’esistenza di un comune progetto di futuro politico, la cui realizzazione comporti l’esercizio del diritto all’autodeterminazione.
3. Il concetto del diritto di autodeterminazione
Il “principio” di autodeterminazione dei popoli è sancito dagli articoli 1, par. 2, 55 e 76 della Carta delle Nazioni Unite. Questo “principio” è divenuto “diritto umano”, formalmente riconosciuto a tutti i popoli, in virtù dell’identico articolo l dei due Patti internazionali sui diritti umani del l966:
“l. Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale. (...) 3. Gli Stati parti del presente Patto, (...), debbono promuovere l’attuazione del diritto di autodeterminazione dei popoli e rispettare tale diritto, in conformità alle disposizioni dello statuto delle Nazioni Unite”.
Il diritto di autodeterminazione è riconosciuto anche dall’articolo 20 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, entrata in vigore nel l986.
L’Atto finale di Helsinki riconosce il diritto di autodeterminazione al principio VIII:
“Gli Stati partecipanti rispettano l’eguaglianza dei diritti dei popoli e il loro diritto all’autodeterminazione, (...)”.
L’articolo l, par. 2 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sul diritto allo sviluppo, del 1986, richiamando espressamente l’articolo l dei due Patti internazionali del l966, stabilisce:
“Il diritto umano allo sviluppo implica anche la piena realizzazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione”.
La Dichiarazione Universale dei diritti dei popoli (Carta di Algeri, l976), che è un importante atto politico nongovernativo, stabilisce all’articolo 5 che “Ogni popolo ha il diritto imprescrittibile e inalienabile all’autodeterminazione”.
Al di fuori dell’ipotesi di accessione all’indipendenza dei popoli e territori non autonomi (che sono attualmente 19), l’esercizio dell’autodeterminazione esterna comporta sempre mutamenti territoriali e modifiche di confini che, ai sensi del vecchio diritto internazionale, costituirebbero violazione del principio di integrità territoriale degli stati. La rivendicazione del diritto di autodeterminazione, soprattutto esterna, è causa di conflitti anche armati. In via generale, la prima risposta dello stato preesistente è la repressione del movimento popolare e l’iniziale atteggiamento degli stati terzi è conforme al principio di non ingerenza. Successivamente, nella maggior parte dei casi, il conflitto che aveva una dimensione interna tende a divenire internazionale. Il sistema internazionale non è ancora preparato a gestire pacificamente i processi di autodeterminazione al di fuori dei casi prima citati di decolonizzazione. Infatti, il diritto internazionale dei diritti umani riconosce il diritto di autodeterminazione senza apprestare un adeguato sistema di garanzia, in analogia a quanto disposto per i diritti umani individuali: tra l’altro, non è prevista la possibilità di “comunicazione collettiva” presso l’apposito Comitato dei diritti umani funzionante in virtù dell’articolo 28 del Patto internazionale sui diritti civili e politici.
4. La realizzazione pacifica del diritto di autodeterminazione
Il diritto di autodeterminazione è un diritto “rivoluzionario” sia perchè comporta processi di ristrutturazione geopolitica sia perchè implica che il popolo mantenga una propria soggettività giuridica e politica internazionale, distinta da quella dello stato: “Il diritto all’autodeterminazione ha una virtualità permanente” (H. Gros Espiell). Questo significa che finché c’è popolo c’è diritto di autodeterminazione (...). Occorre chiedersi in via preliminare: siccome il processo di autodeterminazione, nel sistema internazionale contemporaneo, oltre che generare conflitti armati sfocia nella creazione di nuovi stati nazione sovrani armati, che significa aumento del tasso di statualità armata e quindi del pericolo di conflittualità armata, è veramente utile e giusto favorire l’autodeterminazione al di fuori del contesto coloniale? La risposta non può che essere positiva per una triplice ragione:
a. perchè c’è il riconoscimento giuridico internazionale di questo diritto;
b. perchè c’è rivendicazione crescente di questo diritto in ogni parte del mondo;
c. perchè c’è il nuovo diritto internazionale dei diritti umani nel suo insieme che consente di trovare soluzioni adeguate.
Quindi bisogna preoccuparsi di trovare specifiche misure di garanzia di questo diritto, perchè il suo esercizio avvenga in modo pacifico. Nel nostro caso, gli strumenti di garanzia non possono limitarsi soltanto a misure quali ‘comunicazioni collettive’ ai Comitati delle Nazioni Unite e ricorsi a Corti internazionali, ma comporta l’allestimento di appropriati sistemi di sicurezza internazionale nel quadro di una strategia per un nuovo ordine internazionale democratico fondato sui principi che avevamo prima richiamati. Si tratta di coniugare insieme indipendenza politica territoriale, disarmo, integrazione e sicurezza internazionale. In altre parole, bisogna uscire fuori dall’ottica della frontiera territoriale armata - ottica tra l’altro contraddetta dai grandi processi planetari dell’interdipendenza, della transnazionalizzazione e dell’organizzazione in ogni campo della vita umana, oltre che naturalmente dell’internazionalizzazione dei diritti umani e dei popoli -, insomma rivedere alle radici la forma stato nazione sovrano.
Perchè l’esercizio del diritto all’autodeterminazione sia legittimo, occorre che la comunità umana interessata abbia la natura di popolo e rispetti le seguenti condizioni:
1. fare immediato, esplicito riferimento al diritto internazionale dei diritti umani;
2. mettersi subito sotto l’autorità sopranazionale delle Nazioni Unite e delle istituzioni regionali a queste coordinate;
3. non usare la violenza, ma gli strumenti propri del metodo democratico: negoziato, referendum, plebiscito, elezioni, ecc.;
4. rispettare tutti i diritti umani, in particolare i diritti delle minoranze;
5. impegnarsi che la eventuale nuova entità territoriale non sia armata;
6. darsi una costituzione democratica che riconosca esplicitamente il primato del diritto internazionale dei diritti umani;
7. aderire subito ad un sistema di integrazione internazionale.
La comunità internazionale, nell’esigere il rispetto di queste condizioni, deve a sua volta adempiere ai seguenti impegni:
1. nel territorio ove si ponga un problema di autodeterminazione essere subito presente con una apposita struttura di garanzia sopranazionale articolata in:
a. struttura di monitoraggio;
b. struttura di supervisione dei processi di manifestazione della volontà popolare;
c. struttura di interposizione (se necessaria);
2. allestire sistemi di sicurezza collettiva internazionale sotto l’autorità sopranazionale delle Nazioni Unite;
3. trasformare in senso federale le preesistenti istituzioni regionali di integrazione, perchè le nuove entità territoriali ne facciano subito parte;
4. democratizzare tutte le istituzioni internazionali (ONU, CSCE, Consiglio d’Europa, ecc.), mediante forme di legittimazione diretta e di partecipazione politica popolare ai processi decisionali internazionali. Sul piano europeo, si richiede subito alla CSCE, alla Comunità europea e al Consiglio d’Europa di creare una Agenzia inter-istituzionale paneuropea per i problemi dell’autodeterminazione e delle minoranze, cui partecipino anche l’ONU e la HCA.
La rete di collegamento transnazionale (network) delle istituzioni indipendenti di società civile ha un duplice compito da realizzare:
1. promuovere l’approccio “diritti umani e democrazia” per i processi di autodeterminazione;
2. essere subito presente, con una propria struttura di monitoraggio e di dialogo, nel tessuto sociale e politico del territorio interessato alla autodeterminazione per favorire l’uso degli strumenti democratici e l’internazionalizzazione del caso.
5. I diritti delle minoranze
Gli strumenti giuridici internazionali non riconoscono i diritti delle minoranze in quanto soggetti collettivi, ma taluni diritti umani degli individui appartenenti a minoranze. La norma più importante è l’articolo 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici:
“In quegli stati, nei quali esistono minoranze etniche, religiose, o linguistiche, gli individui appartenenti a tali minoranze non possono essere privati del diritto di avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua, in comune con gli altri membri del proprio gruppo”.
I diritti dei membri di minoranze finora riconosciuti sono dunque: diritti culturali, diritti relativi a pratica religiosa, diritti relativi all’uso della lingua. Non c’è nessun riferimento a forme di autonomia territoriale. Secondo una interpretazione corrente, l’obbligo degli stati in rapporto all’articolo 27 sarebbe quello di tutelare le minoranze con adeguate previsioni normative (attinenti soprattutto all’insegnamento, all’educazione e all’informazione) nelle costituzioni, in leggi ad hoc e con provvedimenti amministrativi.
Ci si dimentica di sottolineare che spesso, nel caso delle minoranze, ad essere violati sono numerosi altri diritti umani riconosciuti agli individui in quanto esseri umani. Il vero problema dei diritti delle minoranze è che, in molti casi, riesce difficile distinguere i confini tra minoranza e popolo. Il problema è cruciale, perchè se di popolo si trattasse scatterebbe automaticamente il diritto all’autodeterminazione del soggetto collettivo. La definizione di minoranza più accreditata in sede ufficiale è quella contenuta nel Rapporto speciale della Commissione delle Nazioni Unite per la lotta contro la discriminazione e la protezione delle minoranze intitolato “Etude des droits des personnes appartenant aux minorités ethniques, religieuses et linguistiques” elaborato da Francesco Capotorti nel l977 (nuova edizione a cura del Centro delle Nazioni Unite per i diritti umani, l99l). Col termine “minoranza” viene designato un gruppo che è
“numericamente inferiore al resto della popolazione di uno stato, in una posizione non-dominante, i cui membri - essendo cittadini dello stato - posseggono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione e mostrano, quanto meno implicitamente, un senso di solidarietà inteso a preservare la loro cultura, tradizioni, religione o lingua” (par. 568).
Il problema dei diritti delle minoranze si complica quando la cosiddetta minoranza di uno stato si identifica con il popolo maggiore di uno o più altri stati. In questi casi, la minoranza oltre alla richiesta di non discriminazione avanza la domanda, più o meno esplicita, di autonomia territoriale o addirittura di autodeterminazione. Il grosso nodo da sciogliere, senza nascondersi dietro il dito, è costituito da situazioni quale quella ora ipotizzata e da situazioni in cui sullo stesso territorio, all’interno di uno stato, sono compresenti più minoranze o micro nazionalità: per esempio a Subotica nella Vojvodina, provincia della Serbia. Per ambedue i casi, ferma restando la necessità di riconoscere e tutelare i diritti delle minoranze in quanto soggetti collettivi, valgono in prima approssimazione le previsioni contenute nel Documento conclusivo della Conferenza della CSCE sulla dimensione umana di Copenaghen (giugno 1990), e cioè che i membri di una minoranza hanno innanzitutto il diritto di esercitare pienamente e effettivamente i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali senza discriminazione alcuna (par. 31 e 32).
Nel Rapporto della Riunione di esperti della CSCE sulle minoranze nazionali (Ginevra 1991) al par. IV sono elencate a titolo indicativo alcune appropriate misure “democratiche”:
“- Organismi consultivi e decisionali nei quali le minoranze sono rappresentate, particolarmente per quanto riguarda educazione, cultura e religione;
- organismi elettivi e assemblee per gli affari delle minoranze nazionali;
- amministrazione locale e autonoma, come pure autonomia su base territoriale, compresa l’esistenza di organismi consultivi, legislativi ed esecutivi scelti mediante libere e periodiche elezioni;
- auto-amministrazione di una minoranza nazionale relativamente a materie concernenti la propria identità in situazioni in cui l’autonomia su base territoriale non si applica;
- forme di governo decentrato locale;
- (...);
- incoraggiamento di iniziative di base per relazioni tra le comunità minoritarie, tra comunità maggioritarie e comunità minoritarie, tra comunità confinanti, intese a contribuire a prevenire il nascere di tensioni locali o a risolvere pacificamente i conflitti in corso;
- incoraggiamento della creazione di commissioni miste permanenti, sia interstatuali sia regionali, intese a facilitare il dialogo continuo tra le regioni frontaliere interessate”.
Per il caso di minoranze o gruppi etnici o micro-nazionalità che si identificano con il popolo di uno o più altri stati, deve ritenersi assolutamente necessaria la garanzia che discende da forme di autonomia territoriale.
6. Lo status legale dei “territori transnazionali”
Per i casi di compresenza di più minoranze o gruppi etnici o micro nazionalità sullo stesso territorio, la soluzione che si ipotizza come la più razionale é la “transnazionalizzazione” del territorio interessato dentro il territorio principale dello stato di appartenenza, cioè la creazione di “territori transnazionali”.
Cosa significa “territorio transnazionale”? E’ una nuova figura giuridica di entità territoriale, che traduce la compenetrazione fra interno ed esterno anche in termini di istituzioni territoriali. Il territorio transnazionale è un territorio che, per il fatto di essere abitato da più minoranze o gruppi etnici, è assunto essere ‘bene comune dell’umanità’ dal punto di vista geo-antropologico. In altre parole, la multietnicità, la multirazzialità, la multiculturalità sono “risorse di pace” per il mondo intero.
Il territorio interessato resta sotto l’autorità principale dello stato di cui fa parte, ma questa “autorità principale” è condizionata da forme di autorità internazionale esercitate a titolo di garanzia.
Il territorio transnazionale può assumere varie denominazioni: per esempio, “provincia transnazionale”, “comune transnazionale”, “comunità transnazionale”, ecc.
Lo statuto legale del territorio transnazionale è fatto dei seguenti elementi:
1. l’accordo fra le varie minoranze o gruppi etnici presenti sul territorio;
2. l’accordo fra lo stato di cui fa parte il territorio interessato e gli stati confinanti;
3. la decisione di una organizzazione internazionale di garantire la “transnazionalità” - che significa la particolare autonomia territoriale - del territorio interessato;
4. la presenza sul territorio di un ufficio permanente dell’autorità internazionale di garanzia;
5. la presenza organizzata di strutture transnazionali di società civile, col compito principale di promuovere e gestire “laboratori permanenti di multiculturalità”;
6. la membership del “territorio transnazionale” ad una apposita camera o comitato o network all’interno dell’organizzazione di integrazione internazionale (in Europa, Comunità europea o Consiglio d’Europa o CSCE o, meglio, un sistema interistituzionale paneuropeo formato da queste tre organizzazioni).
Il “territorio transnazionale” deve essere non armato e potrebbe beneficiare di facilitazioni economiche e commerciali.
Il “territorio transnazionale” deve agevolare l’insediamento di organismi transnazionali di società civile (“ambasciate di società civile”).
7. Conclusioni
1. Nell’era dell’interdipendenza planetaria, della transnazionalizzazione, della organizzazione internazionale, della internazionalizzazione dei diritti dell’uomo e dei popoli, bisogna pensare a forme nuove di statualità, che superino la logica del ‘confine’ e della ‘sovranità armata’.
2. Eventuali nuove entità territoriali indipendenti devono essere non armate e quindi devono essere garantite dentro un sistema di sicurezza collettiva internazionale: cioè, il sistema delle Nazioni Unite democraticamente partecipato e sistemi regionali direttamente collegati al sistema delle Nazioni Unite.
3. I “vecchi” stati devono:
a. disarmare;
b. attuare processi di ‘federalizzazione’ al loro interno;
c. far parte di sistemi di integrazione sopranazionale.
4. Pertanto, i contenuti istituzionali-territoriali della strategia di pace positiva sono essenzialmente:
a. integrazione sopranazionale democratica degli stati;
b. autonomia territoriale diffusa dentro gli stati;
c. creazione di territori transnazionali
Alla base di tutto, sta una nuova cultura politica che ha come obiettivi operativi:
1. l’appoggio al nuovo diritto internazionale dei diritti umani e dei popoli;
2. la democratizzazione e il potenziamento delle Nazioni Unite con autorità sopranazionale;
3. la creazione e il potenziamento di strutture indipendenti di società civile ad ogni livello.
(...)
Agli stati, alla CSCE, alla Comunità Europea, al Consiglio d’Europa, all’ONU poniamo, in via pregiudiziale, la domanda: volete veramente la effettività del diritto internazionale dei diritti umani e dei popoli? Se sì, dovete prepararvi a gestire pacificamente la ristrutturazione geo-politica del pianeta.