Beati i Costruttori di Pace: Arena Golfo, 27 gennaio 1991
Il 27 gennaio 1991, per iniziativa del Movimento “Beati i costruttori di pace”, si è svolta nell’Arena di Verona una manifestazione straordinaria contro la guerra del Golfo, cui hanno preso parte 10.000 persone. Pubblichiamo il testo di messaggi e interventi.
La devastazione degli spiriti
Intervento di Padre David Maria Turoldo, Parroco di S. Egidio a Sotto il Monte, poeta e saggista
Siamo di nuovo minacciati dal più grave pericolo di distruzione e di morte, il mondo stesso è minacciato ad ogni livello, fisico e spirituale, a livello individuale e comune, perché siamo tutti dentro la stessa barca. Mi vengono in mente le parole di Gorbaciov: la terra è una nave e non possiamo permettere che affondi, perché non ci sarà un’altra Arca di Noè a salvarci. Credo che abbia ragione e quelle parole potrebbero essere il commento migliore alla lettera di San Paolo, quando afferma che Dio è uno, che il mondo è uno, che il corpo è uno, che l’uomo è uno per dire che o ci salveremo tutti insieme o tutti insieme ci perderemo. Siamo davanti alla necessità assoluta di formare una nuova cultura, il che vuol dire una nuova mentalità, un modo completamente diverso di pensare; fino ad adesso abbiamo pensato ad una cultura di guerra, oggi bisogna assolutamente pensare e inventare la cultura della pace.
Sapete tutti, voi operatori di pace, voi giovani che partecipate a questo movimento, quanto sia difficile costruire una cultura di pace; non per nulla la beatitudine della pace sta al centro del discorso della montagna, ed è la sola che garantisce la figliolanza di Dio: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio...”. So benissimo che il discorso della pace è il più difficile e ostico perché è veramente l’unico discorso rivoluzionario; bisogna cambiare tutte le categorie della nostra vita, tutte, perché siamo inseriti dentro una cultura che è competitiva: i mercati sono competitivi (libero mercato vuol dire che il mercato più grande mangerà il mercato più piccolo), siamo dentro ad una scuola competitiva e perfino le religioni, se non stiamo attenti, possono diventare competitive.
Forse l’aspetto più delicato e la screpolatura più profonda di tutto il mondo, un altro aspetto della guerra che si combatte attualmente, è che è scoppiata laddove c’è il crogiolo delle fedi più grandi della terra. Ognuno di noi potrebbe essere tentato di pensare che il suo Dio sia migliore di quello dell’altro, e l’altro altrettanto tentato di credere che il suo Dio sia migliore del mio; ma Dio è di tutti!
È per questo che ci siamo fatti guerre di religione, che sono le più insanguinate guerre della terra, in nome di quel Dio che invece non è proprietà di nessuno, perché è il Dio dell’uomo e nessuno può appropriarsi di Lui. Saddam prega Dio e dice che è con lui e allo stesso modo Bush: “In questo momento in cui tutte le chiese sono ripiene a pregare per la pace, è venuta l’ora dell’attacco”.
Attacchiamo tutti in nome di Dio, come in nome di Dio Hitler ha aperto i forni crematori per arrivare al genocidio umano. Il pericolo è spaventoso e forse siamo arrivati a toccare il fondo della discordia umana.
È necessario risalire dal fondo e inventare la nuova cultura della pace perché con la guerra – è già stato detto dal Papa – tutto è perduto, è un’avventura senza ritorno, un’inutile strage; ma soprattutto non dobbiamo pensare che la guerra sia solo quella combattuta e militarmente operante, come se le distruzioni e devastazioni della guerra fossero soltanto quelle di case, di città, di chiese, di strade contorte, di ponti saltati in aria: sono gli spiriti devastati la prima perdita!
Abbiamo già perso e siamo già sconfitti, perché la devastazione degli spiriti è in atto, pensate solo all’odio che questa guerra ha seminato in tutto il mondo: già un miliardo di islamici ci odia e pensano che siamo degli aggressori: pensate, un odio che forse durerà decenni se non anche secoli.
Io ho visto Milano distrutta, Parigi distrutta, Berlino distrutta, ho passato sei campi di concentramento a raccogliere questi sopravvissuti. Sentivamo le ceneri dei morti bruciati nei forni crematori scricchiolare sotto le suole delle scarpe, perché la cenere era sparsa per i viali dei campi di concentramento, così come la sabbia qui nell’Arena.
Quella dello spirito è la devastazione più vera, la distruzione dell’uomo, ecco perché Dio è dalla parte dell’uomo. E quando, appunto, si è già in uno stato di guerra, oltre che essere sconfitti tutti noi, è sconfitta la ragione, perché quando uno ricorre alla forza vuol dire che non crede più alla ragione; è sconfitto il diritto internazionale, perché non ci può essere un diritto fondato sulla forza; è sconfitta la politica, perché non è vero che la guerra sia la politica condotta con altri mezzi, la guerra, invece, è la fine della politica; è la sconfitta della politica perché la politica è cercare vie migliori per la convivenza umana.
Se non ascoltassimo questo desiderio e augurio di pace con cui è annunciato lo stesso Cristo che nasce, se noi non diventiamo, cioè, operatori di pace per realizzare la parola stessa di Dio che s’incarna e diventa principio di comunione e di fraternità umana, il più grande sconfitto di tutti è Dio stesso. Dio che perde la partita umana, è questo il disastro più spaventoso che possiamo immaginare, ed è per questo che dobbiamo impegnarci per la pace, perché Dio ritorni a vincere contro questa guerra bugiarda, sporca e feroce che ci minaccia.
Abbiamo due armi, tra le altre, da usare: la prima è l’arma che io chiamo gioia di vivere, la gioia di essere veritieri, di essere onesti, di essere umani, perché la cosa più bella della terra è la realizzazione della propria umanità. Vi dico una confidenza: quando facevo la resistenza, che era la scelta dell’umano contro il disumano – e io so quanto è diffìcile tenersi su quella linea – prima di partire per le nostre azioni si diceva la preghiera che Teresio Livelli aveva steso; era la preghiera in cui chiedevamo a Dio di renderci ribelli per amore. Questa è la grande arma che dobbiamo usare, essere ribelli per amore!
Adesso che si perde tempo nella discussione su guerra giusta e guerra ingiusta, siamo davanti, invece, ad una nuova concezione, che la guerra è semplicemente impossibile, e poiché all’impossibile nessuno è tenuto abbiamo il diritto e il dovere di ribellarci.
La seconda arma, già suggerita da questo uomo morto a Matausen, ucciso a bastonate mentre difendeva un povero prigioniero, è la preghiera. Diceva il nostro compagno Teresio Livelli: “Amici, non ci sono liberatori, ci sono soltanto uomini che si liberano, siamo noi che dobbiamo liberarci, noi!”.
Ecco l’ultima arma che abbiamo per la pace sicura, quella della preghiera che diventa legge fondamentale della vita.
Quando la preghiera si fa impegno concreto di pace, è allora che abbiamo veramente pregato per la pace, e questo esige la coesione e la coerenza tra quello che si chiede a Dio e quello che l’uomo deve fare.
Le ragioni della speranza
Messaggio di Mons. Tonino Bello, Vescovo di Molfetta e Presidente nazionale di Pax Christi
Un saluto cordiale giunga a tutti voi, che vi siete ancora una volta radunati nell’Arena di Verona, per dire coraggiosamente il vostro “No alla guerra”.
Un “No” risoluto, senza cedimenti, senza interpretazioni riduttive.
Il “No” che si pronuncia davanti alle follie più criminali e sotto l’incalzare delle tragedie più torbide della storia.
Se, non volendolo sprecare, il vostro “No” lo tratterrete in gola per una occasione più tenebrosa di questa, state certi che non esploderà più: perché non c’è peccato più sacrilego della guerra. Di questa guerra.
In solitudine eroica non disturbata da applausi cortigiani, lo ha ripetuto tante volte il Papa in questi giorni dell’amarezza.
Ebbene, la sua voce, inascoltata dai potenti ma raccolta dalla folla sterminata dei poveri, venga oggi amplificata da voi: “La guerra è avventura senza ritorno... E declino dell’umanità... Non può essere un mezzo adeguato per risolvere i problemi esistenti tra le nazioni. Non lo è mai stato e non lo sarà mai!”
Coraggio, amici! Non lasciatevi cadere le braccia. Lo scatenarsi della sufficienza dei dotti non può smontare le faticose costruzioni di pace che in questi anni avete saldamente costruito.
Il vostro “No” alla guerra parte da lontano.
Non siete gli improvvisatori ingenui che i tanti sapienti di oggi vanno riscoprendo.
Non siete i convertiti dell’ultima ora.
Le vostre aspirazioni di pace non sono sospiri di sognatori sprovveduti, ma si nutrono di un incontenibile bisogno di giustizia antico quanto le montagne.
E si nutrono di un grande amore per la patria e di un religioso rispetto delle leggi, sulla cui autenticità nessuno ha il diritto di dubitare.
Questa Arena è testimone di come hanno vibrato le vostre voci nella riflessione sui temi forti della miseria dei tanti Sud della terra, della iniquità del profitto a danno dei poveri del mondo, della violenza esercitata sui popoli di ogni continente, della nuova solidarietà planetaria, della salvaguardia del creato, della dignità di ogni uomo la cui vita è indisponibile perché, come dice San Paolo, è stata riscattata a caro prezzo da Gesù Cristo.
Non tiratevi indietro rispetto alle tante scelte fino a ora perseguite.
Vivete la preghiera, in spirito ecumenico e con costante riferimento all’attualità, organizzando veglie periodiche e digiuni, richiedendo la vigilanza orante di comunità contemplative, promuovendo marce e pellegrinaggi di pace verso luoghi di decisione politica o evocanti la guerra.
Riflettete con coraggio sulle varie obiezioni di coscienza, per poterle lucidamente predicare. Le obiezioni non sono disprezzo per lo Stato e le sue istituzioni, ma espressione di un amore più grande e di servizio fattivo per l’uomo.
E anche nella tristezza dell’ora presente, a coloro che vi interrogano, sia pure per irriderla, possiate dare ragione della speranza che è in voi.
Un grande augurio di pace.
Si fermi l’industria bellica
Messaggio di Mons. Alfredo Battisti, Arcivescovo di Udine
In questa drammatica ora della storia, i cristiani si trovano di fronte a gravissimi e complessi problemi, che impegnano la coscienza a pronunciare un giudizio sugli avvenimenti che occupano la cronaca. E stato conculcato il diritto fondamentale del popolo del Kuwait alla sua libertà politica.
Per la prima volta nella storia, da parte di una autorità sovranazionale quale l’ONU c’è stato un accordo pressoché unanime nel condannare il fatto e nell’invitare l’Irak a ritirarsi dal Kuwait; l’ONU ha perciò autorizzato l’embargo nei confronti dello stesso stato. È un fatto nuovo che determina un salto di qualità nel diritto internazionale dei popoli. Successivamente, il Consiglio di sicurezza ha posto un ultimatum e, in caso di rifiuto, ha autorizzato anche l’uso di tutti i mezzi coercitivi. Dopo lo scadere dell’ultimatum, sono iniziate le operazioni belliche.
A questo punto la coscienza si fa pensosa: si trova di fronte a un grave conflitto di diritti e di doveri. Un primo principio recepito dalla “Gaudium et Spes” (80-81) attesta che anche se c’è una causa giusta, non è più possibile parlare di guerra giusta, perché la guerra ha cambiato natura, anzitutto per i mezzi di distruzione come i missili con testate nucleari, chimiche e batteriologiche. Inoltre, vi è ora il rischio che il conflitto coinvolga tutto il mondo arabo.
Per questo il Papa ha ripetutamente esortato ad evitare la guerra come avventura senza ritorno.
“L’inizio di questa guerra segna una grave sconfitta del diritto internazionale e della comunità internazionale. La guerra non è un mezzo adeguato per risolvere i problemi tra le nazioni, non lo è mai stato e non lo sarà mai”.
Un altro principio invece richiama il dovere di riparare una grave ingiustizia verso un popolo e afferma che l’ordine e il diritto internazionali vanno ripristinati.
È questo in pratica il fine che si afferma di perseguire con l’intervento armato che taluni chiamano guerra, altri operazione di polizia.
C’è il problema della partecipazione a questa guerra dello Stato italiano in base alla Costituzione e del singolo cittadino in base al dettato della sua coscienza.
I cristiani possono senza dubbio affermare il diritto del singolo alla obiezione di coscienza nei confronti di un coinvolgimento personale nell’intervento armato, ma questo probabilmente non può essere definito come dovere di tutti.
Si pone il problema della fedeltà ad un sistema di sicurezza collettiva e questo spiega in Parlamento le due diverse scelte politiche tra cristiani, ambedue ritenute in coscienza legittime e giuste.
In tutti però, in quanto cristiani, deve esserci l’orrore per quanto sta succedendo attualmente in questa guerra.
È pertanto doveroso richiamare, come fa il Papa, a cercare continuamente vie alternative alla guerra, perché torni presto la pace.
Non solo sono stati violati in maniera patente i fondamentali diritti di un popolo, ma anche le più elementari norme del diritto internazionale, sia nei confronti delle sedi diplomatiche, sia nei riguardi dei prigionieri di guerra.
Stante la complessità di questa situazione, alcune linee etiche devono orientare la coscienza dei cristiani.
Primo, questi devono evitare il rischio di alimentare una cultura del nemico e della guerra. La repressione di una ingiustizia non deve comportare l’odio o la volontà di distruzione del popolo iracheno. Occorre soffrire per la morte violenta di ogni uomo in base al principio evangelico che ogni uomo è mio fratello.
Secondo, devono insistere sull’urgenza di avviare una conferenza internazionale per risolvere le altre gravi questioni del Medio Oriente quali la Palestina e il Libano. Se non si fa questo, anche se verrà risolta la questione del Kuwait non si avrà la pace in quella tormentata zona del pianeta.
I cristiani devono insistere sulla necessità di fermare l’industria bellica e il commercio delle armi, che è risultato un orribile mercato di morte, e promuovere la conversione delle fabbriche di armi in industrie alternative.
Infine, i cristiani sanno che la pace può nascere solo se cambia il cuore dell’uomo, e il cuore non lo cambia la guerra ma la grazia di Dio, da implorare con insistente e fiduciosa preghiera.
La pace guidi la sorte dei popoli
Messaggio di Mons. Loris Capovilla, già Segretario di Papa Giovanni XXIII e Vescovo Emerito di Loreto
Sono nato nel corso della guerra 1914-1918. La prima immagine stampata nella mia fantasia di bimbo di tre anni, è quella di mio padre in grigioverde.
Ho ricordi tristissimi degli anni ‘20 di questo secolo, funestati da lotte sociali, culminate con la sconfitta della giustizia.
Ho percorso il curriculum di studi teologici tra la guerra d’Abissinia e la guerra di Spagna. Sono stato ordinato prete la vigilia della seconda guerra mondiale.
Ne ho conosciuto gli orrori, aggravatisi negli anni 1943-1945. Ho solidarizzato col popolo ebraico, crudelmente perseguitato.
La rilevazione dei delitti compiuti nelle sue carni dai fautori di dottrine negatrici di Dio e dispregiatrici della persona umana, mi fanno vergognare d’essere sopravvissuto.
Lo strisciante stillicidio della guerra fredda mi ha agghiacciato il cuore. Ho sofferto sino allo sgomento nei giorni delle repressioni sanguinose di donne e uomini insorti, anelanti alla libertà, al di qua e al di là degli oceani: libertà di pensiero, di religione, di associazione: ho accompagnato con strazio il lento decorso della guerra di Corea e del Vietnam; i conflitti India-Pakistan, le guerre in Israele, Palestina, Libano, Cipro, Corno d’Africa. Ho sofferto la notte di tenebre piombata sui popoli di schiavitù, oppressione, sfruttamento.
Mi è sembrata vittoria di tutto il genere umano, quando, negli anni ‘60, Giovanni XXIII, l’antico padre, nutrito col messaggio cristiano e col sudato pane della tradizione contadina, innalzò sulle contese internazionali il vessillo dell’enciclica Pacem in terris. Questo documento nulla ha perduto della sua forza persuasiva e della sua attualità: “La pace rimane solo vuoto suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato ed integrato dalla carità, e posto in atto nella libertà”.
Era voce di un vecchio saggio, non di un europeo o di un occidentale; voce che sollecitava ad inoltrarsi finalmente sulla strada della autentica conversione e dell’imperativo evangelico: “Amatevi gli uni gli altri”; voce di fratello di tutti coloro che hanno fatto della pace il leitmotiv di servizio e di testimonianza; voce della coscienza universale maturatasi al punto da dichiarare che “la guerra è in ogni caso irragionevole e disumana”.
I cristiani, stimolati dai loro profeti, in comunione sincera con i credenti in Dio e con le donne ed uomini di buon volere, largamente presenti in tutte le aree culturali e religiose del mondo, son decisi più che mai a costruire e consolidare la pace. Fermamente convinti che gli esseri umani, onesti e solidali, possono e debbono risolvere, con intelligenza e con amore, ogni problema al tavolo delle trattative, vogliono operare dal di dentro delle istituzioni culturali, religiose e politiche, con competenza scientifica, capacità tecnica, esperienza professionale; consapevoli però che queste qualità, se sono necessarie, non sono sufficienti per ricomporre i rapporti della convivenza in un ordine genuinamente umano, cioè in un ordine di cui fondamento sia la verità, misura e obiettivo la giustizia, forza propulsiva l’amore, metodo di attuazione la libertà. Essi sanno che “a tale scopo si richiede certamente che gli esseri umani svolgano le proprie attività a contenuto temporale, obbedendo alle leggi che sono ad esse immanenti, e seguendo metodi rispondenti alla loro natura, ma si richiede pure allo stesso tempo che svolgano quelle attività nell’ambito dell’ordine morale, quindi come esercizio o rivendicazione di un diritto, come adempimento di un dovere e prestazione di un servizio”.
Siamo oggi sull’orlo di un precipizio? Lo fummo nell’ottobre 1962, durante la crisi dei Caraibi. Allora Giovanni XXIII si rivolse a John Kennedy, a Nikita Krusciov e ai responsabili dell’ONU e delle nazioni coinvolte in quella avventura:
“Con la mano sulla coscienza, ascoltino il grido angosciato che da tutti i punti della terra, dai piccoli innocenti e dagli anziani, dai singoli individui alle comunità, sale verso il cielo: Pace, Pace! Supplico i capi di stato di non restare insensibili a questo grido dell’umanità. Facciano tutto ciò che è in loro potere per salvare la pace, così eviteremo al mondo gli orrori di una guerra, di cui nessuno potrebbe prevedere le spaventevoli conseguenze. Continuino a trattare. Sì, questa disposizione leale e aperta ha grande valore di testimonianza per la coscienza di ciascuno e in faccia alla storia. Promuovere, favorire, accettare trattative, ad ogni livello e in ogni tempo, è norma di saggezza e di prudenza, che attira le benedizioni del cielo e della terra”.
Uniti a tutti coloro che, come credenti auspicano, come cittadini pretendono, la ripresa delle trattative per la risoluzione del conflitto in atto nel Medio Oriente, nel riconoscimento del diritto di tutti i popoli, facciamo riecheggiare anche il monito che Paolo VI, dalla tribuna dell’ONU, con intonazione di preghiera e di profezia, ha lanciato il 4 ottobre 1965, festa di Francesco d’Assisi: “Voi attendete da noi questa parola che non può svestirsi di gravità e di solennità: non l’uno sopra l’altro; non gli uni contro gli altri, non più, non mai. A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione della Nazioni Unite, contro la guerra e per la pace. Ascoltate le chiare parole di John Kennedy: l’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità. Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine dell’ONU. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra.
La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità”.
Noi, popoli delle Nazioni Unite
Intervento di Antonio Papisca
“Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvaguardare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole, ...”.
Con queste parole inizia la Carta delle Nazioni Unite, che sancisce il patto sociale tra società civile internazionale e autorità internazionale incarnata dalla Organizzazione delle Nazioni Unite.
Nel momento in cui la guerra è scoppiata ed è gestita non dall’ONU, che non può fare guerre, ma da gendarmi senza scrupoli, noi popoli delle Nazioni Unite ci chiediamo chi siamo, quali sono i nostri diritti, quali i nostri poteri.
Noi popoli delle Nazioni Unite siamo i popoli della libertà e dell’opulenza, i popoli sofferenti del sottosviluppo e dello sfruttamento, siamo i popoli sotto dominazione straniera, siamo il popolo dei rifugiati politici, il popolo dei migranti in cerca di pane e di lavoro, siamo il popolo dei bambini, siamo gli italiani, i francesi, i kurdi, i palestinesi, gli israeliani, gli eritrei, i libanesi, gli yanomani, i guatemaltechi e tante altre articolazioni della famiglia umana universale.
I nostri diritti sono quelli che ci vengono riconosciuti come diritti innati, e quindi inviolabili e inalienabili, dalle norme del codice universale dei diritti umani, le cui fonti principali sono la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e le due grandi Convenzioni internazionali del 1966 rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali.
Questo codice giuridico universale costituisce il nuovo diritto internazionale che si pone come nucleo duro o supercostituzione dell’intero ordinamento giuridico internazionale, che per nessuna ragione e in nessuna circostanza può essere violato. Il principio fondamentale di questa supercostituzione planetaria è “Humana dignitas servanda est”, cioè “la dignità umana deve essere rispettata”.
Questo significa che anche nei rapporti internazionali i diritti delle persone e dei popoli sono prioritari rispetto ai diritti degli stati: il diritto alla vita e il diritto alla pace vengono prima dei diritti alla sovranità armata e agli equilibri di forza.
Con grande dolore e inquietudine ci accorgiamo che nei 45 anni di cosiddetta pace mondiale il divario tra le condizioni di vita dei popoli del Nord e del Sud del mondo è divenuto un abisso, che gli stati dell’opulenza hanno respinto il progetto di Nuovo ordine economico internazionale contenuto nella Dichiarazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1974, che gli stati dell’opulenza non vogliono il negoziato globale per una giusta divisione internazionale del lavoro, che la corsa agli armamenti e la militarizzazione del mondo, nonostante i cosiddetti negoziati per il disarmo e tre sessioni speciali dell’Assemblea generale dedicate a questa materia, hanno proseguito forsennatamente, che la dissipazione delle risorse naturali e la rottura degli equilibri ambientali continuano, che non si vuole giustizia e quindi pace nel mondo, che le criminali mire espansionistiche di Saddam Hussein si sono avvalse delle armi che il Nord del mondo gli ha fornito anche in via ufficiale, che i paesi cosiddetti alleati hanno scelto la via della guerra, anziché quella della ragione e cioè del negoziato, per rispondere al crimine dell’invasione del Kuwait, che l’Armata Rossa, con la connivenza dei governi occidentali, indaffarati nella guerra del Golfo, può continuare a reprimere nel sangue il sacrosanto diritto dei popoli baltici alla loro indipendenza.
Ci sentiamo traditi e beffeggiati, noi popoli delle Nazioni Unite, da élites politiche che si dimostrano sensibili più alle ragioni dei mercanti e della Realpolitik – il richiamo della foresta – che alle legittime aspirazioni e alle esplicite domande della società civile internazionale.
Di fronte a questo inquietante stato di cose, ci appelliamo all’articolo 28 della Dichiarazione universale che stabilisce che “ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati”.
Noi ci appelliamo oggi a questo diritto per dire che vogliamo esercitarlo non per delega, ma con azione diretta in quanto società civile che si riconosce immediatamente e autenticamente nelle migliaia di organizzazioni internazionali nongovernative che operano per la promozione umana ovunque nel mondo: da Amnesty International alla Lega per il diritto e la liberazione dei popoli, da Pax Christi al Movimento internazionale per la difesa dei bambini e alla Commissione internazionale dei giuristi.
Noi popoli delle Nazioni Unite vogliamo che le 831 organizzazioni internazionali nongovernative che hanno status consultivo presso il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite siano sempre più attive ed efficaci. Per questo ci impegnamo a mettere a loro disposizione adeguate risorse umane e materiali.
In nome dei diritti umani e della democrazia noi ci attiviamo in nuovi ruoli politici lungo un percorso che va dal quartiere all’ONU, per mettere sotto controllo e orientare il comportamento dei governi in politica estera e internazionale e per democratizzare una ONU che deve esercitare la sua autorità sopranazionale in prima persona e non per delega ad aspiranti gendarmi planetari.
A questo fine occorre che:
- siano immediatamente sospese le operazioni belliche nel Golfo e convocata una Conferenza internazionale di pace;
- il Consiglio di sicurezza riprenda sotto suo diretto controllo la situazione;
- l’Assemblea generale si convochi in sessione di emergenza per aprire il negoziato globale Nord-Sud;
- venga data integrale applicazione all’articolo 43 e seguenti della Carta delle Nazioni Unite, per non correre in futuro avventure di tipo multinazionale;
- le delegazioni degli stati presso i vari organi dell’ONU si compongano oltre che di diplomatici, anche di parlamentari e di rappresentanti di organismi nongovernativi;
- venga abolito il potere di veto in seno al Consiglio di sicurezza;
- accanto alla attuale Assemblea generale, che rappresenta gli stati, se ne costituisca una seconda in rappresentanza dei popoli;
- si costituisca la Corte universale dei diritti dell’uomo e dei popoli;
- si riconosca status internazionale, sotto autorità ONU, agli obiettori di coscienza al servizio militare e con essi si crei una forza nonarmata e nonviolenta delle Nazioni Unite;
- si organizzi un efficace movimento costituente per un nuovo ordine internazionale democratico, attorno a un Consiglio di sicurezza panumana espressione diretta della società civile internazionale.
Il bambino Hoagi, anni 8, di Soweto, ha scritto: “Quando sarò grande vorrei avere una moglie e due bambini, un maschio e una femmina e una grande casa e due cani e la libertà”.
La Convenzione internazionale sui diritti dei bambini è appena entrata in vigore e già questa maledetta guerra del Golfo contraddice l’impegno assunto dagli stati di rispettare il diritto dei bambini alla vita e quindi al futuro.
Noi popoli delle Nazioni Unite, noi “beati i costruttori di pace” prendiamo in mano questa Convenzione e ne facciamo la nostra bandiera per asserire la centralità di Hoagi e di tutti i bambini del mondo nella nuova storia che vogliamo realizzare.