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Cambiamenti climatici: la CIG e la Cassazione italiana segnano una svolta nella giustizia climatica

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Sommario

1. Il parere consultivo consultiva della CIG
1.1. Obblighi internazionali specifici e generali
1.2. L’obbligo generale di due diligence
1.3. Proteggere gli ecosistemi marini e tutelare i diritti umani
1.4. La responsabilità degli stati in caso di illecito
1.5. Un parere linea con recenti decisioni regionali: il Parere 32/2025 della Corte Interamericana dei diritti umani
2. … E la Cassazione conferma che anche in Italia le aziende possono rispondere per mancato  rispetto degli impegni climatici
3. Conclusioni

Nel giro di pochi giorni, sia a livello Italiano sia sul piano del diritto internazionale si sono prodotti importanti passi avanti sul fronte della risposta giuridica al più grave pericolo che incombe sull’umanità e sul pianeta, una “minaccia esistenziale”: quella rappresentata dal riscaldamento globale indotto dalle attività umane e dagli sconvolgimenti ambientali ad esso associabili. In entrambi i casi, protagoniste sono state due istanze giudiziarie: la Corte internazionale di giustizia (CIG) e la Corte  di Cassazione italiana.

1. Il parere consultivo della CIG

Il 23 luglio 2025, la CIG ha pubblicato l’atteso parere consultivo sugli obblighi degli stati in materia di cambiamenti climatici e sulle conseguenze legali derivanti dalla violazione di tali obblighi. La questione le era stata sottoposta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite  nel 2023, su impulso di una vasta coalizione di stati guidata da Vanuatu, uno dei micro-stati del Pacifico minacciato nella sua sopravvivenza dall’innalzamento del livello del mare, una delle conseguenze del clima che cambia ad opera dell’uomo. L’iniziativa, partita anni prima da alcuni studenti universitari, aveva man mano conquistato l’adesione di numerosi paesi, oltre che l’appoggio di ONG e scienziati di tutto il mondo, fino a farsi strada all’Assemblea Generale. Davanti alla Corte sono comparsi per presentare le loro considerazioni oltre cento stati e i giudici hanno preso in esame i pareri di moltissimi organismi scientifici, in primo luogo il gruppo di esperti intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC).

La Corte ha emesso un parere molto articolato, che si sviluppa su 140 pagine, a cui si aggiungono le opinioni individuali o congiunte di vari giudici che, pur concordando con il testo finale (tutti i punti sono stati decisi all’unanimità), hanno voluto sottolineare degli aspetti che risultavano poco valorizzati nel testo su cui si è cristallizzato il consenso generale. 

1.1. Obblighi internazionali specifici e generali

Il punto probabilmente cruciale del parere sta nel riconoscimento che le norme internazionali che trattano direttamente il tema del cambiamento climatico (in particolare, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico del 1992 e i suoi Protocolli, in particolare quello di Kioto e l’Accordo di Parigi del 2015 sul contenimento dei gas a effetto serra entro una soglia che non comporti un aumento della temperatura globale superiore a 1,5 gradi rispetto al livello del 1990) non sono un settore separato del diritto internazionale (lex specialis), ma parte integrante di esso, e vanno quindi applicate alla luce degli altri principi, consuetudini e convenzioni rilevanti, tra cui il principio di equità, anche verso le generazioni future, il principio di leale collaborazione tra gli stati, il divieto di cagionare danni significativi all’ambiente naturale, il divieto di causare danni nel territorio di un altro stato, lo sviluppo sostenibile, il principio per cui gli stati hanno obblighi comuni ma diversificati secondo le diverse capacità, il principio di precauzione e le regole sulla responsabilità in caso di comportamenti illeciti. La Corte ha anche evidenziato che il tema del cambiamento climatico è presente in un insieme di trattati su questioni ambientali (per esempio il trattato contro la desertificazione o quelli per contrastare la distruzione della fascia di ozono), nella convezione sul diritto del mare (che impone agli  stati di non inquinare gli oceani, compreso il fondale degli oceani), nei trattati sui diritti umani (in particolare il diritto alla vita, alla salute, all’alloggio e a un ambiente sano, pulito e sostenibile). Questa posizione implica che anche gli stati che non hanno aderito alla Convenzione-quadro sui cambiamenti climatici e all’accordo di Parigi – uno fra tutti, gli Stati Uniti – sono tenuti al rispetto dell’insieme di queste norme e rispondono internazionalmente per la loro violazione nel caso in cui la mancata osservanza dei loro obblighi sia causa di danni significativi all’ambiente, ovvero si traduca in un aumento significativo delle emissioni a effetto serra.

1.2. L’obbligo generale di due diligence

Il parere si esprime in modo molto netto sul carattere vincolante degli obblighi di mitigazione e adattamento che derivano da questo insieme di principi, consuetudini e trattati. Che si tratti di obblighi di risultato o di obblighi di mezzi o “programmatici”, l’impegno degli stati deve essere valutato in modo rigoroso e i governi non godono affatto di discrezionalità in questa materia, dovendosi applicare un rigido principio di “due diligence”. In altri termini, gli stati devono prendere molto sul serio gli impegni sottoscritti per mitigare i rischi legati al riscaldamento climatico (riducendo le loro emissioni) e adattarsi alle conseguenze dello stesso, adottando in particolare i rispettivi piani nazionali di riduzione dei gas a effetto serra (Nationally Determined Contributions – NDC), che devono essere progressivamente ambiziosi e efficacemente monitorati, e prendendo tutte le misure legislative, amministrative, di bilancio e di altro tipo dettate dalla migliore scienza e derivate dagli impegni internazionali in materia. Anche gli stati che non aderiscono all’Accordo di Parigi, per esempio, per rispettare il loro dovere di diligenza, dovranno tenere nella debita considerazione le decisioni delle Conferenze degli Stati Parti (COP) della Convezione-quadro sui cambiamenti climatici e dell’Accordo di Parigi. Altri criteri che integrano il parametro della “diligenza dovuta” sono la previa consultazione degli altri stati prima di avviare attività che possono causare aumento delle emissioni o impattare sugli sforzi degli altri paesi, l’obbligo di condurre serie analisi di impatto ambientale, e rispettare il principio di precauzione per cui l’incertezza sul piano scientifico non deve impedire o ritardare l’azione di prevenzione del danno da parte degli stati.

1.3. Proteggere gli ecosistemi marini e tutelare i diritti umani

Il parere si pronuncia sugli obblighi degli stati per la protezione dell’ambiente marino, vista l’importanza degli oceani per il contrasto alle conseguenze dell’effetto serra e le conseguenze di quest’ultimo sugli ecosistemi marini. Particolari obblighi sono dovuti rispetto agli stati che rischiano di perdere parti del loro territorio a causa dell’innalzamento del livello degli oceani – altra conseguenza del riscaldamento globale. La Corte peraltro afferma che l’eventuale sommersione del territorio non comporta l’estinzione dello stato. 

Di particolare rilievo la sezione del parere relativa al rapporto tra cambiamenti climatici e diritti umani, dove si evidenzia il dovere degli stati di proteggere i “rifugiati climatici” e si sottolinea come il diritto all’ambiente sia “precondizione” al godimento dei diritti umani e “inerente” agli stessi (anche se i giudici Bhandari e Aurescu osservano che la Corte avrebbe potuto andare oltre e riconoscere che il diritto a un ambiente sano, pulito e sostenibile è diventato parte del diritto consuetudinario). L’obbligo di contrastare il cambiamento climatico con misure di mitigazione e adattamento è quindi parte integrante degli obblighi che gli stati hanno assunto per la protezione dei diritti umani.

1.4. La responsabilità degli stati in caso di illecito

Dopo aver chiarito il carattere obbligatorio a vari livelli per tutti gli stati della lotta ai cambiamenti climatici indotti dall’azione umana, la Corte si pronuncia sulla responsabilità degli stati secondo il diritto internazionale e sull’obbligo di riparazione che loro incombe in caso di inadempienza. Anche in questo caso, nel suo parere la Corte respinge l’idea che solo gli stati parti di alcune specifiche convenzioni (in particolare, dell’Accordo di Parigi) possano essere tenuti responsabili per  non avere fatto abbastanza per ridurre le emissioni causa dell’effetto serra e contenere gli effetti del cambiamento climatico: il dovere di prevenire, mitigare e adattarsi a questo fenomeno globale deriva da norme consuetudinarie e da un insieme di obblighi convenzionali che coinvolgono tutti gli stati. Gli obblighi e le forme di responsabilità specificamente richiamate dall’Accordo di Parigi non escludono che le regole del diritto internazionale generale sulla responsabilità degli stati per atti illeciti possano applicarsi in relazioni ad altre violazioni dei loro obblighi internazionali, o che altri specifici regimi di responsabilità internazionale degli stati possano trovare applicazione. La Corte naturalmente riconosce la complessità dell’analisi necessaria per attribuire a uno stato o a gruppi di stati la responsabilità per un fenomeno così complesso come le mutazioni del clima attribuibili all’azione dell’uomo, fattori antropogenici che oltretutto si sono accumulati nel corso dei decenni. Tuttavia, le osservazioni scientifiche sono ormai sufficientemente precise da consentire di ricostruire nel dettaglio, caso per caso, quali comportamenti di attori statali o privati hanno contribuito a causare danni collegati al riscaldamento globale e a fondare quindi sul piano giuridico la loro responsabilità internazionale, pur escludendo forme di responsabilità oggettiva. Alcune di tali violazioni, peraltro, riferite a obblighi che gli stati hanno nei riguardi dell’intera comunità internazionale (per esempio, l’obbligo di evitare danni significativi all’ambiente limitando le emissioni responsabili dell’effetto serra), si prestano ad essere affrontate su segnalazione di qualunque stato, non solo degli stati più direttamente danneggiati da tali comportamenti (o mancati comportamenti). Si prefigura quindi un’ampia gamma di misure riparatorie che, secondo le circostanze, possono richiedere la cessazione dei comportamenti illeciti e la garanzia di non ripetizione, la restituzione della situazione allo stato precedente o il risarcimento monetario dei danni causati, oppure altre forme di riparazione per i danni non materiali.

1.5. Un parere linea con recenti decisioni regionali: il Parere 32/2025 della Corte Interamericana dei diritti umani

Il parere della Corte, pur non vincolante, segna un passaggio storico nel modo in cui il diritto internazionale affronta la minaccia del riscaldamento globale, poiché si passa dal considerare l’azione degli stati per mitigare e adattarsi alla nuova situazione come essenzialmente volontaria e basata sugli impegni volontari, al considerarla un obbligo fondamentale, sanzionabile su iniziativa di qualunque altro attore internazionale.

La Corte è probabilmente andata oltre quello che molti stati si aspettavano. La materia è infatti densa di implicazioni politiche ed economiche, industriali e strategiche. C’era il rischio che la Corte prendesse una strada ambigua tra affermazione della legalità internazionale e riconoscimento degli interessi economici e geopolitici degli stati più influenti. Pur con qualche insufficienza (evidenziata da alcuni giudici nelle loro opinioni separate), i giudici, all’unanimità, hanno scelto una strada di grande chiarezza sul piano giuridico che cambia radicalmente lo statuto del diritto internazionale dell’ambiente, finora considerato un campo di prevalente soft law.

Il parere si colloca in linea con alcune recenti sentenze e pareri delle principali corti regionali sui diritti umani. In particolare, nel 2024 la Corte europea dei diritti umani (CtEDU) aveva affermato che per uno stato parte (la Svizzera), la mancata attuazione degli impegni in materia di riduzione dei gas a effetto serra comporta violazione del diritto alla vita privata di alcune categorie di persone (Verein KlimaSeniorinnen Schweiz and Others v. Switzerland, Grand Chamber, sentenza del 9 aprile 2024, ricorso n. 53600/20). Nel 2023, la Corte interamericana dei diritti umani (CtIADU) aveva ampiamente trattato l’importanza del diritto all’ambiente nel caso La Oroya Population v. Peru, giudizio del 27 novembre 2023, Series C No. 511). Soprattutto, nel 2025, la Corte interamericana aveva emesso un importante parere (su richiesta di Cile e Colombia) su emergenza climatica e diritti umani (AO 32/25, 29 maggio 2025). Oltre ad affermare l’esistenza, a libello globale, di una vera e propria emergenza ambientale legata al riscaldamento globale, la Corte individuava in una “due diligence avanzata” la risposta che gli stati devono dare a tale situazione. Il diritto all’ambiente (riconducibile all’art. 26 della Convenzione americana sui diritti umani) si collega, secondo la CtIADU, a un obbligo imperativo (ius cogens) degli stati, quello di non causare danni irreversibili al clima e all’ambiente naturale. Per proteggere la natura e i suoi ecosistemi dalle molteplici minacce causate dall’uomo e in particolare dal riscaldamento globale è necessario riconoscere la soggettività giuridica della Natura e dei suoi componenti (comprese le popolazioni umane). Vanno inoltre articolati i diritti alla democrazia ambientale, alla scienza e all’informazione (in materia ambientale e climatica), alla consultazione e partecipazione in materia di scelte ambientali, e i diritti dei difensori dell’ambiente. 

 

2. … E la Cassazione conferma che anche in Italia le aziende possono rispondere per mancato  rispetto degli impegni climatici

Greenpeace Italia e la associazione Recommon, insieme ad altri individui che vivono in zone particolarmente esposte ai rischi legati ai cambiamenti climatici, avevano citato in giudizio l’ENI, il Ministero dell’economia e finanza e la Cassa Depositi e Prestiti (questi ultimi due in quanto azionisti di riferimento di ENI) perché, a loro giudizio, erano venuti meno ai loro obblighi in materia di raggiungimento degli obiettivi climatici internazionalmente riconosciuti. In particolare, l’ENI, multinazionale dell’energia con sede principale in Italia, secondo i ricorrenti, pur essendosi vincolata nel suo codice etico a rispettare i diritti umani e gli obiettivi dell'Accordo di Parigi, avrebbe seguito una strategia non in linea con le indicazioni dell'IPCC. Il suo piano di decarbonizzazione al 2050, oltre a non prevedere il totale abbandono dei combustibili fossili, contempla infatti una riduzione delle emissioni di appena il 35% entro il 2030 e prevede per i prossimi anni un aumento nella produzione di idrocarburi. Oltre a ciò, l’ENI, al pari di altre aziende petrolifere, finanzierebbe campagne mediatiche e azioni di lobbying tendenti a minimizzare l’emergenza climatica. 

Il tribunale di Roma, investito di una analoga controversia riguardante però direttamente il governo italiano, aveva ritenuto il difetto assoluto di giurisdizione: il giudice italiano non aveva il potere di sindacare le leggi del Parlamento e le altre misure prese dall’organo di governo, poiché ciò avrebbe comportato un’indebita interferenza del potere giudiziario su quelli esecutivo e parlamentare. Ricollegandosi a tale precedente, ENI e gli altri convenuti si apprestavano a contestare, tra le altre cose, la giurisdizione del giudice italiano. Per questo i ricorrenti hanno presentato davanti alla Cassazione un ricorso per regolamento di giurisdizione: la Cassazione doveva sostanzialmente stabilire se anche in questo caso la richiesta di risarcimento fosse da escludere per mancanza di giurisdizione.

La risposta della Cassazione, adottata il 18 febbraio 2025, è resa pubblica il 21 luglio dello stesso anno. Secondo le sezioni unite della Cassazione civile, il caso contro ENI è diverso da quello precedentemente presentato contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal momento che la richiesta di accertamento dell’illecito e risarcimento del danno riguarda un ente privato (l’ENI e i suoi principali azionisti), non organi politici. La domanda si fonda infatti sull’articolo 2043 del codice civile (responsabilità per fatto illecito – si citano anche gli articoli 2050 e 2051 dello stesso codice, relativi alla responsabilità extracontrattuale per cagionata da attività pericolose o da cose in custodia). L’illecito contestato consiste nel mancato adempimento da parte di ENI degli impegni che l’azienda si era assunta sul fronte della riduzione delle emissioni causa del cambiamento climatico, e che rispondevano all’obbligo introdotto dall’Accordo di Parigi del 2015. Tale Accordo è vincolante non solo per gli stati, ma anche per i soggetti privati che operano al loro interno, quindi non vale appellarsi alla propria autonomia aziendale. Il mancato rispetto di tali impegni comporta una violazione della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU), articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto alla vita privata e famigliare), come si ricava dalla giurisprudenza della CtEDU nel caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz and Others v. Switzerland, nonché degli articoli 9 e 41 Cost., che sanciscono la protezione dell’ambiente con prevalenza, se del caso, sulle scelte imprenditoriali degli operatori economici, o ancora degli articoli 2 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE).

La Cassazione ha quindi risolto il problema di giurisdizione sollevato preliminarmente da Greenpeace e dagli altri ricorrenti, affermando che il tribunale può procedere nel merito della controversia, poiché non gli è richiesto di pronunciarsi su scelte politiche o legislative dello stato, bensì di accertare se un’azienda privata (per quanto ampiamente partecipata da azionisti pubblici) abbia mancato di ottemperare a degli obblighi di legge. Spetterà al tribunale stabilire se effettivamente gli obblighi sulle emissioni climalteranti fissati dall’Accordo di Parigi si applicano anche ai privati e se vi sia stata effettiva violazione degli articoli 2 e 8 CEDU o 2 e 7 CDFUE, e anche se la richiesta di risarcimento del danno da illecito avanzata dai ricorrenti meriti accoglimento. 

L’ordinanza della suprema corte conferma anche la competenza territoriale del giudice italiano a trattare della controversia. Infatti, non solo i ricorrenti che lamentano la violazione del loro diritto alla vita e alla vita privata e famigliare (che comprende salute, qualità della vita, relazioni personali, ecc.) sono domiciliati in Italia, ma anche l’azienda accusata di aver cagionato con le proprie politiche tali danni ha la sede principale in Italia. Non vale pertanto contestare che le emissioni sono prodotte per lo più in stati esteri, dal momento che i criteri di collegamento individuati sono sufficienti a fondare la competenza del giudice italiano.

 

3. Conclusioni

Grazie alla decisione della Cassazione, anche in Italia possono prendere slancio le cause giudiziarie sui cambiamenti climatici che in altri paesi europei hanno già portato a risultati importanti, costringendo i governi e le aziende a rivedere in senso più ambizioso le loro politiche di contrasto alle emissioni responsabili dell’effetto serra. Questo orientamento riceve ulteriore spinta dal parere della CIG che, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’ordinanza della Cassazione, conferma il valore vincolante che la Corte attribuisce al diritto internazionale dell’ambiente di contrasto al cambiamento climatico, le cui norme assumono un valore “strutturante” rispetto all’ordine giuridico internazionale.

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