Corte europea dei diritti umani

Trabelsi c. Italia, 2010: per il nostro paese un'altra condanna come in "Saadi”, aggravata dal non aver rispettato le misure provvisorie chieste dalla Corte

Foto panoramica della sede del Palazzo dei diritti umani che ospita la Corte europea dei diritti umani, Strasburgo.
© Consiglio d'Europa

In Trabelsi c. Italia (Ricorso n. 50163/08), decisione della seconda sessione della Corte resa il 13 aprile 2010, la Corte europea dei diritti umani ha nuovamente condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani) per aver trasferito in Tunisia un cittadino immigrato senza aver considerato il rischio che nel sistema carcerario di quel paese esistono seri indizi dell’esistenza di pratiche vietate a danno dei detenuti. In aggiunta a ciò, la Corte ha anche riconosciuto che l’Italia, non ottemperando alla richiesta di sospensione del procedimento di espulsione emessa dalla Corte. La sentenza ribadisce quanto già la Corte aveva disposto nel caso Ben Khemais c. Italia (Ricorso n. 246/07), deciso il 24 febbraio 2009.

Mourad Trabelsi, cittadino tunisino nato nel 1969, in Italia dal 1986, sposato con una connazionale con la quale ha avuto tre figli, è stato arrestato nel 2003 per associazione con finalità di terrorismo internazionale (270 bis del Codice Penale) e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Nel 2006 Trabelsi è condannato dalla Corte d’assise di Cremona a 10 anni di carcere e alla sucessiva espulsione. In sede d’appello e poi di Cassazione, la pena è ridotta a sette anni; successivamente il giudice di sorveglianza la ridurrà di altri 425 giorni. Nel 2005, una corte marziale tunisina aveva giudicato Trabelsi in contumacia per il reato di associazione terroristica, condannandolo a 10 anni di carcere. Il 20 ottobre 2008 Trabelsi presenta ricorso alla Corte europea, asserendo che il suo imminente trasferimento in Tunisia comporterebbe, da parte dello stato italiano, violazione degli artt. 3 e 8 della Convenzione europea. Il termine della pena da scontare in Italia, infatti, risultava essere il 21 novembre 2008. Il 28 novembre 2008, la Corte utilizza la procedura dell’art. 39 del suo regolamento per chiedere al governo italiano di soprassedere all’eventuale espulsione del ricorrente verso la Tunisia, in attesa che il suo caso venga trattato a Strasburgo. La commissione per i rifugiati di Milano, nel respingere la domanda di asilo politico avanzata da Trabelsi, raccomanda l’emissione a suo favore di un permesso di soggiorno di protezione umanitaria, proprio in ragione della richiesta di sospensione dell’espulsione. Il 3 dicembre, tuttavia, il Ministro dell’Interno, avvalendosi dei poteri introdotti dalla legge 155/2005, art. 3, dispone l’espulsione di Trabelsi per motivi di sicurezza nazionale – il tribunale di sorveglianza di Pavia conferma tale misura. Il 13 dicembre la misura di espulsione viene eseguita. Da allora Trabelsi si trova in Tunisia, ristretto nel carcere di Saouaf.

Il caso appare molto simile a Saadi c. Italia (2008), per quanto riguarda la violazione dell’art. 3. L’ambasciatore italiano a Tunisi, il 12 dicembre 2008 (un giorno prima dell’esecuzione dell’espulsione) invia una lettera al ministro degli esteri tunisino in cui chiede una serie di garanzie rispetto al trattamento di Trabelsi, e invita anche lo stato tunisino a partecipare ala discussione del caso dinanzi alla Corte europea dei diritti umani a sostegno dello stato italiano. Tale lettera non avrà risposta. Il 3 gennaio 2009, tuttavia, l’avvocatura generale presso la direzione generale dei servizi giudiziari del governo tunisino invia una lettera in cui informa le autorità italiane sulle procedure di cui Trabelsi è oggetto (è sotto inchiesta davanti alla giustizia civile per reati di terrorismo e ha presentato opposizione alla condanna per terrorismo emessa dalla giustizia militare – tale opposizione non spende l’esecuzione della pena); dà inoltre garanzie circa il rispetto da parte della Tunisia degli obblighi derivanti da trattati internazionali di sui lo stato è parte in materia di equo processo e di condizioni di detenzione. Un’altra lettera, sollecitata dall’Italia, viene inviata dal Ministero degli affari esteri algerino il 14 novembre 2009, in cui si conferma che il detenuto è visitato dai suoi parenti e riceve presso il carcere di Sauofa le cure mediche di cui ha bisogno.

La Corte, pur osservando che tali assicurazioni sono successive al momento in cui l’espulsione è stata decisa (3 dicembre 2008) ed eseguita (13 dicembre) dall’Italia, non esclude di prenderle in esame. Da esse, però, non emergono circostanza sufficienti a smentire le informazioni provenienti da varie fonti (CIA americana, Amnesty International, Human Rights Wathc, ecc.) che presentano un quadro preoccupante delle condizioni di detenzione degli individui imputati o condannati per terrorismo nei penitenziari tunisini. La sentenza Saadi aveva già escluso ogni possibilità di bilanciare il rischio per l’individuo di subire tortura o trattamenti inumani con i motivi invocati dallo stato per procedere all’espulsione. I seri rischi di maltrattamenti non sono fugati dalle assicurazioni diplomatiche fornite dalla Tunisia. Esse infatti da un lato non provengono da autorità propriamente diplomatiche (solo nel 2009 è il ministero degli esteri a rispondere); quando sono fornite dalle autorità diplomatiche, risultano generiche. In particolare non contestano il fatto che né l’avvocato italiano che difende Trabelsi né l’ambasciatore italiano hanno avuto la possibilità di il detenuto e che non vi sono documenti di provenienza medica che attestino il suo effettivo stato di salute.

L’Italia, pertanto, nel procedere all’espulsione di Trabelsi verso la Tunisia pur in presenza di un reale rischio di vederlo sottoporre a trattamenti crudeli inumani o degradanti, ha violato l’art. 3 della convenzione europea dei diritti umani.

Inoltre, l’Italia non ha rispettato la misura provvisoria della sospensione dell’espulsione adottata dalla Corte in forza dell’art. 39 del suo Regolamento di procedura (“La camera o, se del caso, il suo presidente, possono, su domanda della parte interessata o d’ufficio, indicare alle parti qualunque misura provvisoria essi ritengano debba essere adottata nell’interesse delle parti o del corretto andamento della procedura”). Così facendo, lo stato ha impedito al ricorrente di seguire efficacemente il proprio ricorso davanti alla Corte, in violazione dell’art. 34 della Convenzione euroepa (“Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’effettivo esercizio efficace” del diritto a proporre ricorso). Inoltre in questo modo lo Stato è venuto meno al suo dovere di garantire i diritti stabiliti dalla Convenzione ad ogni persona sotto la sua giurisdizione (art. 1) e del l’obbligo di “conformarsi alle sentenze definitive della Corte”. L’esecuzione dell’espulsione, nonostante la richiesta di sospensione avanzata dalla Corte, ha posto nel nulla il diritto ad un ricorso individuale effettivo e “utile” stabilito dall’art. 34 (è citato a riguardo il caso voir Mamatkulov e Askarov c. Turchia [GC], nos 46827/99 e 46951/99, §§ 128-129, nonché punto 5 del dispositivo, ECHR 2005-I).

Oltre ad accertare la violazione da parte dell’Italia degli artt. 3 e 34 (dell’art. 8 la Corte ha ritenuto non necessario parlare), la sentenza obbliga lo stato a corrispondere 15mila euro al ricorrente a titolo di danni morali (ne erano stati chiesti 80mila).

La sentenza sarà definitiva se non impugnata entro tre mesi dalla data di adozione.

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