Siria

Appello per la pace in Siria

Appello per la pace in Siria

del Centro di Ateneo per i Diritti Umani “Antonio Papisca” e della Cattedra UNESCO Diritti umani, democrazia e pace dell’Università degli Studi di Padova, 14 ottobre 2019

Si fermi subito l'operazione militare unilaterale della Turchia nel nord-est della Siria contro i curdi siriani. La coscienza dei membri della famiglia umana si ribella contro la spietatezza di chi sta agendo nella barbarica logica della legge del più forte. La sicurezza di cui hanno bisogno indilazionabile il popolo siriano e il popolo curdo, deve essere sicurezza umana internazionalmente garantita.

L’attacco militare turco costituisce una violazione dell’art. 2, paragrafi 3 e 4, della Carta delle Nazioni Unite:

3. I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo.
4. I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.

Costituisce altresì una violazione dell’art. 1 del Trattato Nord Atlantico di cui la Turchia fa parte:

Le parti si impegnano, come stabilito nello Statuto delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte, in modo che la pace e la sicurezza internazionali e la giustizia non vengano messe in pericolo, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all'uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite.

L’accesso dei civili alla protezione umanitaria, il rispetto del diritto dei conflitti armati, la garanzia dei diritti umani fondamentali degli abitanti della Siria richiedono l’immediato arresto dell’iniziativa militare turca. Le preoccupazioni dello Stato Turco per la propria sicurezza legate al formarsi di un’entità politica potenzialmente ostile al proprio confine meridionale non possono essere superate con la forza militare e la strumentalizzazione della catastrofe umanitaria.

L’attacco portato dalle truppe turche alle postazioni delle People’s protection units (YPG) curde nel nord della Siria è il più recente e certamente non l’ultimo atto del multiforme conflitto scoppiato iniziato nel 2011. Negli ultimi otto anni il conflitto ha mutato continuamente i propri connotati: da rivolta contro un regime dispotico a scontro globale contro il sedicente califfato di Daesh, a scenario di “guerre per procura” combattute tra potenze mondiali e regionali per il predominio in un’area strategica per tutto il Medio Oriente.

Il denominatore comune delle guerre in Siria è stato il più totale disprezzo, da parte praticamente di tutti attori politici e strategici che si sono confrontati sul terreno, delle più fondamentali regole del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani.

Il carattere apertamente criminale del conflitto in Siria è emerso in più occasioni ed è stato a più riprese denunciato dalle Nazioni Unite, dalle agenzie umanitarie, dagli osservatori indipendenti che hanno potuto avvicinarsi al terreno. Uso di armi chimiche, ricorso sistematico al terrore, trasferimenti forzati di popolazione civile, uso di civili come scudi umani, manipolazione delle informazioni e dei media, attacchi agli operatori umanitari, persecuzioni e pulizia etnica, tortura sistematica dei prigionieri, atti di genocidio in una terra che nei passati decenni è già stata testimone di massacri genocidari. Nessuna delle fattispecie più gravi di crimini internazionali è stata assente dallo scenario siriano.

I continui cambiamenti di fronte da parte delle varie potenze interessate al conflitto hanno reso del tutto precaria la condizione degli abitanti: ai quasi cinque milioni di profughi usciti dal Paese si aggiungono i sei milioni di sfollati interni e gli altri milioni di persone che vivono in città o territori stretti d’assedio o minacciati di attacco.

La nuova operazione militare lanciata in questi giorni dalla Turchia nella regione del Rojava ha per obiettivo quelle stesse milizie dell’YPG che, con il sostegno di una vasta coalizione a guida occidentale, avevano portato il vittorioso attacco finale a Daesh. Le operazioni su vasta scala avviate dalle forze armate turche sembrano però incuranti dell’obbligo di proteggere la popolazione civile e hanno anzi una aperta motivazione anticurda.

Migliaia di ex combattenti del Daesh, attualmente detenuti in strutture controllate dall’YPG, riacquisteranno la libertà e la capacità di nuocere; fazioni combattenti che negli ultimi tempi avevano limitato le proprie operazioni, già hanno riguadagnato vigore e ripreso le loro strategie di terrore, con esecuzioni arbitrarie e sparizioni forzate; nuove ondate di profughi saranno l’esito di questa azione militare.

Di fronte a questa ulteriore svolta presa dal conflitto serve una reazione decisa della comunità internazionale e di ogni cittadino consapevole.

Il riposizionamento politico e strategico indotto dalla mossa del governo turco rischia non solo di compromettere la sicurezza e la sopravvivenza di popolazioni stremate da anni di conflitto e di repressione, ma di allargare ulteriormente il conflitto in forme non prevedibili. Per questo, la paralisi del Consiglio di Sicurezza, pur in presenza di evidenti rischi che crimini contro l’umanità e atti di genocidio possano concretizzarsi, non può più essere giustificata.

Apprezziamo l’iniziativa assunta dai cinque membri europei del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite - Francia, Germania, Gran Bretagna, Belgio e Polonia – che, nella sessione di giovedì 10 ottobre, hanno invitato la Turchia a fermare la sua offensiva militare contro le forze curde siriane. I membri del Consiglio di sicurezza non hanno tuttavia trovato un accordo per una risoluzione di condanna dell'operazione nonostante gli sforzi dei membri europei. Deve essere chiaro che se il Consiglio di sicurezza non interviene, la responsabilità è di chi ne determina la volontà, cioè degli stati che ne fanno parte, in particolare di quelli che usano e abusano del potere di veto.

Apprezziamo la Dichiarazione a nome dell'UE dell'Alta Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza nella quale si afferma tra l’altro che

l'UE ribadisce che una soluzione sostenibile al conflitto siriano non può essere raggiunta militarmente. L'UE invita la Turchia a cessare l'azione militare unilaterale. Le nuove ostilità armate nel nord-est comprometteranno ulteriormente la stabilità dell'intera regione, aggraveranno le sofferenze dei civili e causeranno ulteriori sfollamenti. Le prospettive del processo politico guidato dalle Nazioni Unite per raggiungere la pace in Siria saranno più difficili.

Apprezziamo la dichiarazione del Governo italiano nella quale si afferma che

L’Italia si adopererà per contrastare l’azione militare turca nel Nord-Est della Siria con ogni strumento consentito dal diritto internazionale. Il Governo italiano è convinto che si debba agire con la massima determinazione per evitare ulteriori sofferenze al popolo siriano, in particolare curdo, e per contrastare azioni destabilizzanti della regione. Il Governo italiano ritiene che questi obiettivi debbano essere raggiunti attraverso il coordinamento europeo e operando in sede multilaterale al fine di rafforzarne l’efficacia.

La posizione dell’UE e dell’Italia deve essere irremovibile. Qualsiasi cedimento alla logica della guerra aprirebbe una conflittualità sempre più estesa nella regione mediorientale. La via dell'unilateralismo, del farsi giustizia da sé e imporre la legge della forza, dissennatamente perseguita negli ultimi anni, ha dimostrato di essere una via senza uscita.

Apprezzabile ma tardiva la decisione di vari Stati europei di sospendere la vendita di armi alla Turchia, vista la mole dei contratti di fornitura militare già in essere. Anche la decisione, presa dall’UE nel pieno della “crisi dei rifugiati”, di affidare in gran parte proprio alla Turchia la gestione dei flussi di profughi siriani, essenzialmente allo scopo di tenerli lontani dal territorio europeo, in cambio di aiuti miliardari, oggi dimostra tutta la sua miopia.

Il vigente diritto internazionale obbliga a disarmare e a far funzionare un efficace ed efficiente sistema di sicurezza internazionale collettiva, sotto autorità delle Nazioni Unite e con la collaborazione delle legittime istituzioni multilaterali regionali.
La Carta delle Nazioni Unite stabilisce all’art. 1 che il rispetto dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei popoli costituisce uno dei fini principali delle Nazioni Unite.

In ossequio al principio della "responsabilità di proteggere", la Comunità Internazionale, e per essa l'Organizzazione delle Nazioni Unite e le altre legittime istituzioni multilaterali in accordo con l'ONU, deve intervenire al più presto per fermare i belligeranti, avviare una effettiva strategia di uscita della società siriana dal conflitto e la rigenerazione delle istituzioni dello Stato.

Nessuna guerra è giustificabile. Questa nuova guerra nel nord della Siria lo è meno di qualunque altra. La guerra in Siria deve essere fermata mobilitando tutti i mezzi nonviolenti e nonarmati di cui le nostre società e i nostri sistemi politici dispongono: diplomazia, politica, informazione, azione penale contro i colpevoli di crimini internazionali, manifestazioni pubbliche e azioni individuali e collettive che esprimano il nostro dissenso.

Il Centro di Ateneo per i Diritti Umani “Antonio Papisca” e la Cattedra UNESCO Diritti umani, democrazia e pace dell’Università degli Studi di Padova fanno appello alla comunità accademica, alla società civile, alle forze politiche responsabili di tutti i Paesi, e a tutti i cittadini perché queste risorse nonviolente siano adeguatamente messe in campo e si unisce a tutti quanti vorranno dare il loro contributo a una vera pace per la Siria, premessa per la fine dei conflitti armati anche nello Yemen e in tutta la regione.

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