La Corte di giustizia dell'Unione Europea frena sull'esternalizzazione delle procedure di asilo, imponendo un controllo giudiziale sugli "stati d'origine sicuri". La sentenza C-758/24 e C-759/24 del 1 agosto 2025

Sommario
- Introduzione
- Il casi da cui origina la sentenza
- La questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia
- La risposte della Corte di giustizia dell’UE
- Conclusione
Introduzione
Una decisione molto attesa in Italia è stata pubblicata il 1mo agosto 2025 dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE) sulla spinosa questione della determinazione di alcuni stati extraeuropei come ‘paesi sicuri’ ai fini della applicazione delle norme sulla protezione internazionale. Alla fine del 2024, infatti, il tribunale di Roma aveva sollevato a distanza di poche settimane uno dall’altro due ricorsi pregiudiziali alla CGUE in occasione della trattazione di altrettanti casi riguardanti due cittadini bengalesi. La loro domanda di protezione internazionale era stata respinta dalla Commissione territoriale competente sostanzialmente sulla base della circostanza che la legge italiana (il decreto-legge 158 del 23 ottobre 2024, che modificato l’art. 2-bis del decreto legislative 25/2008 che regola la procedura di protezione internazionale) qualificava il Bangladesh come “paese terzo sicuro”. (gli altri paesi “sicuri” erano Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. Camerun, Colombia e Nigeria erano stati esclusi perché in alcuni loro territori la “sicurezza” non era garantita. Da segnalare che nel dicembre 2024 la legge 187/2024 ha interamente abrogato l’intero decreto-legge 158/2024 e pertanto, a partire dall’11 dicembre 2024, tale lista non ha più effetti; restano comunque validi e efficaci gli atti adottati nel fino a quella data e i relativi diritti e obblighi).
Il tribunale di Roma, a cui i due richiedenti asilo si erano rivolti per riformare la decisione, dubitava della conformità di tale legge con alcuni articoli della Direttiva 2013/32 sulla procedura europea di riconoscimento della protezione internazionale, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), che afferma il diritto di ogni individuo a un ricorso effettivo quando sono in gioco dei diritti fondamentali, compreso quello all’asilo. Oltre al diritto eurounitario, l’applicazione della normativa italiana in questione evidenzierebbe inoltre una violaziode degli articoli 6 (giusto processo) e 13 (diritto a un rimedio effettivo) della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU).
La sentenza nelle cause riunite C-758/24 (Alace) e C-759/24 (Canpelli – entrambi i nomi sono inventati) è stata adottata dalla grande camera della CGUE a termine di una procedura accelerata, ma non in via d’urgenza, come era stato richiesto dallo stato italiano. Alla trattazione hanno fornito il loro contribuito con proprie osservazioni, oltre all’Italia, anche molti altri stati membri dell’UE.
Il casi da cui origina la sentenza
I due bengalesi erano stati intercettati su un’imbarcazione che, dalla Libia, li stava trasportando in Italia, sprovvisti di documenti validi per entrare nel paese europeo. In applicazione del Protocollo stipulato tra Italia e Albania sulla gestione dei migranti nonché della legge che dispone la ratifica e l’esecuzione dello stesso Protocollo, legge 14/2024, i due migranti erano stati trasportati nel centro di detenzione amministrativa di Gjadër, in territorio albanese. Per loro infatti, data l’accertata provenienza da un “paese sicuro” e visto che non presentavano profili di “vulnerabilità”, risultava applicabile la procedura accelerata di determinazione dello status di protezione internazionale da parte della commissione territoriale di Roma – sezione alla frontiera II, presso la struttura appena inaugurata in territorio albanese. La Commissione aveva respinto le loro domande e, stante l’impossibilità di trattenerli in territorio albanese (le richieste di convalida erano state respinte dal giudice proprio in ragione dei dubbi sulla legittimità della procedura accelerata motivata dal carattere “sicuro” del paese d’origine dei ricorrenti), le autorità italiane avevano disposto il loro trasferimento in Italia, dove i richiedenti avevano impugnato il provvedimento dinanzi al tribunale di Roma. La principale contestazione rivolta alla decisione di rigetto della Commissione territoriale si concentrava sul fatto che, nonostante quanto sostenuto dalle autorità italiane e sancito dal decreto-legge 158/2024, i ricorrenti lamentavano che nel loro caso il paese d’origine non era affatto sicuro, in quanto avevano motivo di temere trattamenti inumani.
La decisione della CGUE era pertanto attesa non solo per le sue conseguenze generali sul modo in cui la legislazione italiana regola le domande di protezione internazionale avanzate da cittadini di paesi terzi qualificati come “sicuri”, ma anche per il suo impatto sull’operatività delle strutture create in Albania nel quadro del Protocollo Italia-Albania del 2023. Le funzioni di tali strutture sono infatti strettamente legate alla possibilità di gestire in forma accelerata e in un paese estero le procedure accelerate di determinazione di status per migranti (intercettati nel Mediterraneo dalla Marina militare italiana) aventi la cittadinanza di paesi terzi “sicuri”. Vale ricordare che quelle del tribunale di Roma non sono gli unici rinvii pregiudiziali alla CGUE di giudici italiani in riferimento a varie disposizioni della legge nazionale in materia di procedura accelerata, specie in quanto applicata nelle strutture extraterritoriali costruite in Albania. Su alcune di questi dubbi si è espressa anche la Corte di Cassazione, Sezione I, ordinanza interlocutoria n. 34898, 30 dicembre 2024, sospendendo ogni ulteriore intervento in attesa della pronuncia della CGUE.
La questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia
I giudici italiani hanno posto alla CGUE una questione pregiudiziale articolata in quattro punti.
In primo luogo chiedono se uno stato possa determinare con una legge (il decreto-legge 158/2024) il carattere di “paese sicuro” dello stato di origine di un migrante o se questa condotta si incompatibile con gli articoli 36, 37 e 46 della Direttiva 2013/32, da interpretare alla luce dell’articolo 47 CDFUE. Il fatto che tale qualificazione si presente in una norma di legge sembrerebbe infatti suggerire che faccia venire meno ogni discrezionalità per un giudice investito della questione di discostarsi da tale determinazione. Ciò sarebbe in contrasto con quanto dispongono le norme europee, le quali parlano in questi casi di una presunzione relativa di infondatezza della domanda, che il richiedente asilo può confutare provando l’esistenza nel paese d’origine di un pericolo di persecuzione, tortura, ecc.
In secondo luogo, il tribunale di Roma osserva che il decreto-legge 158/2024 fonda la propria lista dei paesi sicuri, tra cui il Bangladesh, su “riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti”: un riferimento molto generico che non consente agli interessati di contestare la fondatezza di tali informazioni. Collegato a questo problema è la terza domanda: il giudice italiano si chiede se sia consentito in base alle norme europee – anche nel silenzio della legge italiana – utilizzare qualunque fonte affidabile da cui si possa dedurre che lo stato designato sicuro dalla legge in realtà non lo è. Senza tale possibilità di provare il contrario, il diritto di impugnare davanti al giudice il rigetto della domanda di protezione internazionale sarebbe privo di effettività.
Infine, ci si chiede se l’articolo 2-bis del decreto legislativo 25/2008 sulla procedura di asilo che, riformato nel 2024, riconosce espressamente che non è possibile considerare sicuri paesi in cui una porzione del territorio non è sicura (e per questo non prevede nella lista dei paesi sicuri Camerun, Colombia e Nigeria), ma ammette che possano essere considerati “sicuri” stati in cui esistano rischi per alcune categorie di persone, sia in linea con l’articolo 37 della Direttiva 2013/32 e con l’allegato 1 alla stessa Direttiva, in base al quale è “sicuro” lo stato in cui “non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni […], né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”). Il dubbio sulla legittimità della disposizione sorge anche alla luce del contenuto dell’articolo 61.2 del Regolamento 2024/1348 che nel 2026 sostituirà, abrogandola, la Direttiva 2013/32. In esso infatti si legge che “La designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro a livello sia dell'Unione che nazionale può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili”. Si palesa quindi una contraddizione tra la Direttiva 2013/32, che collega il carattere “sicuro” di uno stato alla “generale e costante” mancanza di persecuzioni, tortura, ecc., e il Regolamento 2024/1348, in qualche modo anticipato dalla norma italiana, che prevede eccezioni territoriali e per categorie di persone.
La risposte della Corte di giustizia dell’UE
La sentenza della CGUE riprende ampiamente la giurisprudenza precedentemente formatasi in merito alla procedura speciale prevista dalla Direttiva 2013/32 per i migranti provenienti da paesi designati come “sicuri”. La specialità di tale procedura consiste, tra le altre cose, nel fatto di prevedere tempi ridotti per la trattazione dei casi (in base alla normativa vigente in Italia, la Commissione territoriale in alcune ipotesi deve pronunciarsi entro un termine massimo di sette giorni) e di potersi svolgere alla frontiera del paese o in zone di transito – ovvero, come previsto dal Protocollo italo-albanese, in una struttura gestita dallo stato su territorio estero. Tale procedura accelerata di determinazione dello status si svolge quindi in deroga alle disposizioni ordinarie. La deroga non riguarda solo i tempi, ma anche la circostanza che il richiedente asilo che non abbia con-segnato il “passaporto o altro documento equipollente” o che non abbia prestato “idonea garanzia finanziaria”, può essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura accelerata “al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato”.
Il tema delle procedure accelerate è stato affrontato in varie sentenze della CGUE, in particolare nella causa C-406/22 del 4 ottobre 2024, quella che ha dato origine a varie pronunce dei giudici italiani che hanno in buona parte bloccato l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, e che ha anche motivato il decreto-legge 158/2024. In effetti, la sentenza del 1 agosto 2025 della Grande Camera in buona parte ribadisce i contenuti della decisione dell’ottobre 2024.
Sul primo punto sollevato dal tribunale di Roma, la CGUE afferma che nulla nella Direttiva 2013/32 e nella CDFUE impedisce a uno stato di designare con un proprio atto legislativo la lista di stati terzi “sicuri, a patto che questo non limiti in alcun modo il diritto del cittadino di uno di tali stati che ha presentato una domanda di protezione internazionale di impugnare davanti a un giudice la legittimità di tale determinazione, anche nel quadro della procedura accelerata di trattazione della domanda di protezione.
La determinazione di uno stato come rientrante tra i paesi “sicuri” ai sensi della normativa nazionale non può essere fatta, come è avvenuto con il decreto-legge 158/2024, sulla base di generici riferimenti a informazioni in suo possesso, ma indicando le fonti utilizzate e garantendo un accesso adeguato alle stesse. L’articolo 37 della Direttiva 2013/32, in particolare, menziona le informazioni fornite da altri Stati membri, l’Agenzia per l’Asilo, l’UNHCR, il Consiglio d’Europa e altre organizzazioni internazionali. Senza questa trasparenza, il cittadino non sarebbe in condizione di confutare la presunzione di “paese d’origine sicuro” avanzata dallo stato – non potrebbe nemmeno valutare se è il caso di impugnare in sede giudiziaria il rigetto della sua domanda da parte della Commissione. Inoltre, il giudice deve essere in grado di raccogliere qualunque altro elemento di prova per verificare l’esistenza o meno, allo stato presente (ex nunc), di elementi che giustificano la designazione di uno stato come paese sicuro, escludendo il rischio di persecuzione, tortura, trattamenti inumani o violenza indiscriminata da cui dipende il riconoscimento o meno del diritto alla protezione internazionale. In questo, l’autorità giudiziaria deve rispettare il principio del contraddittorio tra le parti, nonché basarsi su fonti di informazione affidabili.
Infine, alla luce dell’articolo 37 della Direttiva 2013/32, come va esclusa l’ipotesi che uno stato possa qualificare come “sicuro” uno stato in cui esistono porzioni di territorio non sicure (era questo uno dei punti decisi nella sentenza C-406/22 del 4 ottobre 2024), allo stesso modo non si può considerare sicuro il paese d’origine di un migrante che garantisca sicurezza solo a una porzione dei propri cittadini. Concludere diversamente infatti porterebbe a estendere a una più vasta categoria di richiedenti asilo una norma, quella sulla procedura accelerata, concepita come in deroga al procedimento ordinario. È vero che queste limitazioni territoriali e per categorie di persone sono esplicitamente introdotte nel nuovo Regolamento 2024/1348 destinato a sostituire la Direttiva 2013/32 (e in effetti il governo italiano ha in qualche modo inteso anticipare tale norma, che di fatto rischia di rendere ordinaria la procedura accelerata che la Direttiva considerava come eccezionale). Tuttavia, nonostante la Commissione abbia presentato una proposta per anticipare l’entrata in vigore degli articoli del Regolamento 2024/1348 riguardati i paesi terzi d’origine sicuri (COM/2025/186 final), per ora la data di entrata in vigore del Regolamento resta il 12 giugno 2026, e quindi per ora è la Direttiva 2013/32 che fornisce il parametro legale eurounitario che le normative nazionali devono rispettare.
Conclusione
La sentenza della CGUE nei casi C-758/24 e C-759/24 ribadisce che la procedura accelerata prevista per i richiedenti asilo che provengono da paesi per i quali vale una presunzione di sufficiente garanzia dei diritti umani resta un’eccezione alla regola e che agli stati non è consentito costruire scorciatoie normative che estendano oltre i limiti attuali la portata delle norme derogatorie previste dal diritto eurounitario vigente. La decisione della CGUE mette quindi un freno alle intenzioni del governo italiano di esternalizzare in modo massiccio la gestione dei flussi migratori irregolari provenienti dalla costa nordafricana. Lo fa usando argomenti che appaiono anche più rigorosi di quelli prefigurati dalla ordinanza interlocutoria della Cassazione sopra citata, dal momento che quest’ultima si dimostrava disposta ad considerare compatibile con la Direttiva 2013/32 la norma italiana che faceva salvo il carattere “sicuro” dello stato d’origine del richiedente pur in presenza di casi di persecuzione, purché limitati a “categorie” di individui.
Le strutture per migranti irregolari costruire in Albania, presentate come idonee a ospitare, una volta messe a regime, fino a 3000 persone contemporaneamente e che impegnano un volume di spesa valutato in circa 650 milioni tra 2024 e 2028, nei mesi di operatività tra il 2024 e il 2025 hanno ospitato per pochi giorni poche decine di persone, anche a fronte delle numerose decisioni dei giudici di non convalidare il trattenimento in tale sede delle persone la cui domanda di protezione internazionale era stata rigettata. Alla luce della impossibilità di usare le strutture in Albania per le finalità previste, il governo italiano ha optato per un parziale cambiamento della loro destinazione suo adibendoli a centro per il rimpatrio (CPR), in forza del decreto-legge 37 del 25 marzo 2025 che ha modificato a questo fine l’articolo 3 della legge 14/2024, operando peraltro un’ulteriore forzatura, trattandosi del primo centro per il rimpatrio extraterritoriale.
È possibile che, con l’entrata in vigore (forse anticipata rispetto al giugno 2026) degli strumenti normativi del Patto europeo su immigrazione e asilo, l’assetto creato dalla recente legislazione italiana venga alla fine sanato, visto che anche i regolamenti europei sembrano orientati nel senso di normalizzare il ricorso a procedure accelerate che tendono a diventare la regola, piuttosto che l’eccezione, sfruttando il dispositivo del paese di origine (o anche di transito) “sicuro” come grimaldello per forzare il sistema di garanzie. Per il momento, tuttavia, l’operazione tentata dallo stato italiano ha incontrato la diga del diritto dell’Unione.