Opinioni CEDAW - A.F. contro Italia

Sommario
- Fatti del caso
- Il Ricorso
- Osservazioni dello Stato parte sull'ammissibilità e sul merito della causa
- Commenti dell'autrice sulle osservazioni dello Stato parte
- Questioni e procedimento dinanzi al Comitato
Fatti del caso
Il caso riguarda una funzionaria pubblica di Cagliari che è stata aggredita sessualmente dall'agente di polizia C.C. dopo aver risposto a una sua chiamata per violenza domestica. Il 2 dicembre 2008, la ricorrente è stata aggredita dal suo ex marito e ha chiamato la polizia. L'agente C.C. è intervenuto e, più tardi quel giorno, ha iniziato a importunarla con telefonate insistenti. Il giorno seguente, C.C. è entrato nella sua abitazione con il pretesto di avere informazioni sul caso, quindi ha proceduto ad aggredirla sessualmente e a violentarla. La ricorrente ha conservato le prove del DNA e ha chiesto assistenza medica; i medici hanno confermato lesioni compatibili con uno stupro. Nel gennaio 2009 ha presentato ricorso penale, che ha portato all'incriminazione di C.C. nel 2010. Durante il processo nel 2014, il tribunale ha ascoltato le testimonianze di altre due donne sul comportamento violento di C.C. e ha esaminato le prove forensi che lo collegavano al reato, condannandolo a sei anni di reclusione. Tuttavia, nel 2015 il tribunale distrettuale ha sorprendentemente ribaltato la sentenza, accettando la tesi di C.C. secondo cui il rapporto sessuale era consensuale e suggerendo che l'autrice avesse inventato l'aggressione per rimorso. Il tribunale si è basato su stereotipi di genere dannosi, criticando il comportamento dell'autrice dopo l'aggressione in quanto non conforme alle loro aspettative su come dovrebbe comportarsi una vittima di stupro. La Corte Suprema ha confermato questa decisione nel 2017.
Il Ricorso
La ricorrente sostiene di aver subito una discriminazione ai sensi dell'articolo 1 della Convenzione, sostenendo che l'assoluzione del suo stupratore da parte del Tribunale regionale era basata su stereotipi di genere e miti sul comportamento atteso dalle vittime di stupro, violando i suoi diritti ai sensi degli articoli 2, lettere b) e d), f), 5, lettera a), e 15, paragrafo 1, della CEDAW. Essa sostiene che tali stereotipi hanno ostacolato il suo accesso alla giustizia, causandole una vittimizzazione continua, e che lo Stato non ha fornito rimedi efficaci come richiesto dagli articoli 2(b)-(c) della CEDAW, non attuando adeguate protezioni legislative contro la discriminazione di genere. L'autrice sostiene inoltre una violazione dell'articolo 2, lettera d), della CEDAW, in quanto il pregiudizio di genere da parte del giudice ha compromesso l'imparzialità del tribunale nell'assolvere C.C., dimostrando l'incapacità dello Stato di prevenire pratiche discriminatorie. Essa afferma ulteriori violazioni degli articoli 2, lettera f), e 5, lettera a), della CEDAW, in quanto l'Italia ha trascurato di riformare le leggi e i modelli sociali che perpetuano la discriminazione di genere. In particolare, la ricorrente critica la definizione giuridica di stupro, incentrata sulla forza piuttosto che sul consenso, e lamenta la mancanza di formazione giudiziaria in materia di violenza di genere, che rende l'interpretazione della legge soggetta a stereotipi culturali. L'autrice sostiene che i suoi diritti ai sensi dell'articolo 15, paragrafo 1, della CEDAW sono stati violati, poiché le decisioni del tribunale si sono basate su pregiudizi di genere piuttosto che su prove oggettive, negandole la parità di tutela giuridica. Cita inoltre la durata eccessiva del processo, la sistematica rivittimizzazione attraverso il rafforzamento giudiziario degli stereotipi e i danni finanziari derivanti dalla perdita del lavoro e dalle spese legali come danni aggravanti. Il ricorso contesta fondamentalmente il modo in cui i pregiudizi di genere nel sistema giuridico italiano hanno determinato molteplici violazioni dei suoi diritti ai sensi della CEDAW attraverso un ragionamento giudiziario errato, quadri giuridici inadeguati e la tolleranza istituzionale nei confronti delle pratiche discriminatorie nei confronti delle donne.
Osservazioni dello Stato parte sull'ammissibilità e sul merito del caso
Lo Stato parte difende il proprio quadro giuridico come fondato sui principi democratici, sulla parità di genere e sulla tutela dei diritti umani, citando norme costituzionali e internazionali. Fa riferimento all'assoluzione di C.C. da parte della Corte nel 2015, che ha ribaltato la condanna iniziale del 2014, sostenendo che la corte d'appello ha correttamente rivalutato le prove attraverso argomentazioni motivate, come richiesto dalla giurisprudenza della Corte Suprema. Lo Stato sottolinea che, quando annullano le condanne, i tribunali devono fornire motivazioni alternative dettagliate, ma non sono tenuti a riesaminare i testimoni, a meno che non convertano le assoluzioni in condanne, in linea con gli standard europei in materia di diritti umani. Lo Stato sottolinea che la Corte Suprema ha ritenuto generico e infondato il ricorso dell'autore, in particolare per quanto riguarda la credibilità dei testimoni e le prove forensi relative all'uso del preservativo a sostegno della difesa di C.C. basata sul consenso. Lo Stato sottolinea le sue solide garanzie giuridiche contro la violenza di genere, tra cui la legge “Codice rosso” del 2019, che istituisce procedure accelerate per le vittime, e il Piano strategico nazionale 2017-2020 che rafforza le misure antiviolenza a più livelli. Descrive in dettaglio i miglioramenti legislativi, come la criminalizzazione dello stalking (2009), l'estensione delle protezioni alle vittime durante i procedimenti e la formazione specializzata per i funzionari. Lo Stato fa riferimento a sistemi integrati di sostegno alle vittime, tra cui un comitato istituito nel 2018 per snellire l'assistenza dalla denuncia al risarcimento. Pur riconoscendo le raccomandazioni del Comitato CEDAW sulla giustizia di genere, sostiene che la magistratura ha agito senza pregiudizi e che l'assoluzione della Corte riflette una legittima rivalutazione delle prove piuttosto che stereotipi. Lo Stato sostiene che le sue leggi criminalizzano adeguatamente la violenza sessuale, citando precedenti della Corte Suprema che applicano rigorosamente l'articolo 609-bis del codice penale sugli atti sessuali coercitivi. Respinge le accuse di pregiudizio di genere sistemico, indicando le riforme in corso, come l'aumento dei finanziamenti per i servizi alle vittime e la raccolta di dati a livello nazionale sulla violenza di genere. In definitiva, lo Stato afferma la sua piena conformità agli obblighi internazionali, sostenendo che il caso dell'autrice ha ricevuto un esame giudiziario equo senza trattamenti discriminatori, e sottolinea la sua continua cooperazione con i meccanismi dei diritti umani.
Commenti dell'autrice sulle osservazioni dello Stato parte
Nelle sue ulteriori osservazioni al Comitato, la ricorrente sottolinea che il suo ricorso non mira a rimettere in discussione la responsabilità penale di C.C., ma piuttosto a contestare gli stereotipi di genere che hanno influenzato la sua assoluzione, violando i suoi diritti ai sensi della Convenzione. Rileva che lo Stato parte non ha contestato la ricevibilità, che dovrebbe quindi essere riconosciuta come accertata. L'autrice respinge l'affermazione dello Stato secondo cui il suo caso si limita a contestare la valutazione delle prove, sottolineando invece che la sentenza del Tribunale - e la mancata revoca da parte della Corte Suprema - si basava su miti sessisti sulle vittime di stupro, in violazione degli obblighi costituzionali e internazionali dell'Italia. Critica le osservazioni dello Stato per aver propagandato riforme legislative ignorando come gli stereotipi abbiano compromesso il suo accesso alla giustizia, sottolineando il persistente divario tra le tutele giuridiche formali e la loro attuazione a causa di pregiudizi sociali radicati. Citando un rapporto dell'Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) del 2019, sottolinea come gli stereotipi diffusi incolpino le vittime: il 39,3% degli italiani ritiene che le donne possano evitare rapporti sessuali indesiderati, il 23,9% attribuisce lo stupro all'abbigliamento provocante e il 15,1% incolpa le vittime ubriache. Questi pregiudizi, sostiene, contagiano la magistratura, come documentato dalla giudice Paola Di Nicola e da una ricerca in corso finanziata dal Dipartimento per le pari opportunità. L'autrice afferma che sono stati violati gli articoli 2, lettere b), d) e f), 5, lettera a), e 15, paragrafo 1, della CEDAW, sostenendo che gli stereotipi giudiziari le hanno negato un ricorso effettivo, compromesso l'imparzialità e perpetuato la vittimizzazione secondaria. Pur riconoscendo il quadro giuridico progressista dell'Italia, l'autrice osserva che la sua efficacia è svuotata dai pregiudizi culturali che distorcono l'interpretazione giuridica del consenso e della credibilità. Facendo riferimento alla decisione del Comitato nel caso Vertido c. Philippines, condanna i rigidi standard imposti al comportamento delle vittime di stupro. L'autrice critica inoltre la legislazione italiana in materia di stupro per concentrarsi sulla forza piuttosto che sul consenso e per consentire la prescrizione delle accuse di molestie, aggravando il suo diniego di giustizia. Conclude che lo Stato ha mancato ai suoi obblighi positivi, causando un danno morale, sociale e finanziario, tra cui la perdita del lavoro e le spese legali, a causa del protrarsi del procedimento e degli stereotipi rivittimizzanti insiti nella sentenza di assoluzione.
Questioni e procedimento dinanzi al Comitato
Il Comitato ha innanzitutto esaminato la ricevibilità della comunicazione, confermando che la questione non era oggetto di un esame internazionale parallelo e che i rimedi interni erano stati esauriti. Pur riconoscendo l'argomentazione dello Stato parte secondo cui l'autrice cercava di rimettere in discussione valutazioni di fatto, il Comitato ha sottolineato il proprio mandato di valutare se il ragionamento giudiziario fosse viziato da stereotipi di genere che costituiscono discriminazione. Ha dichiarato la comunicazione ammissibile ai sensi degli articoli 2, lettere b)-d) e f), 5, lettera a), e 15, paragrafo 1, della CEDAW, in quanto la ricorrente ha sufficientemente dimostrato che gli stereotipi hanno distorto il suo accesso alla giustizia.
Nel merito, il Comitato ha esaminato attentamente l'assoluzione di C.C. da parte del tribunale, che ha ribaltato la sua condanna iniziale nonostante le prove mediche, le testimonianze dei testimoni e le prove del DNA. Il Comitato ha rilevato che la Corte d'appello si è basata su speculazioni sull'uso del preservativo per respingere la credibilità della ricorrente, liquidando le sue lesioni come “esuberanza” in un rapporto sessuale consensuale. Ha sottolineato i pregiudizi di genere della Corte, che ha biasimato la ricorrente per non essersi comportata come una “vera vittima di stupro”, interpretando erroneamente le sue azioni dopo l'aggressione come una vendetta inventata e giustificando le incongruenze di C.C. come legittima difesa. L'approvazione di tale ragionamento da parte della Corte Suprema, senza affrontare gli stereotipi, ha aggravato la violazione.
Il caso dimostra le carenze sistemiche del sistema giudiziario italiano nel trattare adeguatamente la violenza sessuale e nell'eliminare i pregiudizi di genere, con conseguente grave errore giudiziario in cui prove schiaccianti sono state ignorate a favore di supposizioni discriminatorie sul comportamento delle donne.
Il Comitato ha ritenuto che gli organi giudiziari dello Stato parte abbiano violato la Convenzione:
- applicando miti sulle vittime di stupro (ad esempio, reazioni traumatiche previste, motivi per false accuse);
- sottoponendo l'autrice a un esame sproporzionato mentre accettava acriticamente la testimonianza di C.C.;
- non garantendo l'imparzialità, perpetuando una cultura dell'impunità.
Il Comitato ha sottolineato che il quadro giuridico italiano, incentrato sulla forza piuttosto che sul consenso, favorisce gli stereotipi in quanto richiede alle vittime di dimostrare la resistenza piuttosto che agli autori di dimostrare il consenso.
Il Comitato ha concluso che lo Stato parte ha violato gli articoli 2, lettere b)-d) e f), 3, 5 e 15, raccomandando:
- il risarcimento dei danni morali, sociali e finanziari subiti dall'autrice;
- riforme procedurali per accelerare i casi di violenza sessuale;
- formazione giudiziaria obbligatoria per eliminare gli stereotipi;
- modifiche legislative per definire lo stupro come mancanza di consenso, trasferendo l'onere della prova agli autori.
Lo Stato parte deve riferire entro sei mesi in merito al rispetto delle raccomandazioni.