Violenza di genere nei conflitti e securitizzazione: problemi, giustizia e una possibile soluzione

Sommario
- Il ruolo delle norme sociali e dei comportamenti nella violenza di genere
- Le ragioni psicologiche alla base della violenza di genere
- Condanne e impunità della violenza di genere
- Securitizzazione: tra progressi e nuovi problemi
- Peacekeeping e peacebuilding: amici o nemici?
La violenza di genere esiste in ogni società, ma assume forme e intensità diverse in base al contesto. Tra queste è possibile individuare la violenza sessuale nei conflitti, la quale viene normalizzata dall’erronea considerazione che si tratti di una questione indipendente e un sottoprodotto delle guerre. Di conseguenza, solo a partire dai conflitti in Rwanda e Yugoslavia, il mondo, e in particolare le organizzazioni internazionali, hanno preso coscienza di come questa problematica non sia semplicemente una parte inevitabile degli scontri.
Gli studiosi si dividevano tra coloro che, come Susan Brownmiller, credevano che gli stupri commessi in tempo di guerra non solo fossero incrementati nel ventesimo secolo, ma fossero anche un fenomeno strettamente collegato a tale secolo; e altri, come Jonathan Gottschall, che lo vedevano come un fenomeno senza tempo, tant’è che si spingevano a citare, in appoggio alla loro opinione, esempi come quelli delle scritture della Torah e di Omero.
Nonostante la violenza sessuale nei conflitti abbia una natura atemporale, è evidente che il secolo scorso abbia visto un aumento della sua perpetuazione, in gran parte dovuto ai cambiamenti nelle modalità di svolgimento degli scontri. In maniera similare, l’accresciuta attenzione verso tale problema può essere attribuita agli avanzamenti tecnologici del ventesimo secolo in ambito di comunicazione mediatica e giornalismo, che hanno permesso di facilitare e ampliare la diffusione delle testimonianze di tali violenze.
Non è stata trovata alcuna soluzione sostenibile, principalmente a causa della natura sfaccettata della violenza di genere, che richiede uno studio caso per caso e delle soluzioni su misura per ricostruire delle società in maniera tale da prevenire la ricorrenza di tali violenze. Ciò implica un cambio sistemico in come gli studiosi e le organizzazioni internazionali, così come la società civile e gli attivisti, approcciano tale tema.
Analizzare i fattori legati alla violenza di genere non è sufficiente; anche la teoria della securitizzazione e la sua applicazione alla violenza sessuale nei conflitti devono essere prese in considerazione. Il seguente articolo esamina la violenza sessuale in Cambogia sotto il regime degli Khmer Rouge, nella Repubblica Democratica del Congo, in Rwanda e Yugoslavia, evidenziando fattori chiave, risultati e ostacoli alla giustizia e all’eliminazione della discriminazione di genere. Nonostante il piccolo numero di casi analizzati, la loro importanza permette l’identificazione di elementi essenziali che contribuiscono alla violenza di genere nelle società e, in particolare, durante le guerre.
Il ruolo delle norme sociali e degli atteggiamenti nella violenza di genere
Ci sono varie teorie che si sono sviluppate attorno al tema della violenza sessuale nei conflitti, incluse quella della “pentola a pressione”, della violenza strategica, e la teoria femminista. La prima percepisce lo stupro in tempi di guerra come il risultato di imperativi biologici; la seconda lo identifica come uno strumento usato dalle forze militari al fine di raggiungere determinati obiettivi strategici. La teoria femminista, tuttavia, rifiuta tali spiegazioni e pone un’enfasi sulla diversità di esperienze vissute dalle vittime, e sfida la mono-dimensionalità del fenomeno, sostenendo che sia uomini che donne possano ricoprire i ruoli di vittime e carnefici, sfidando, dunque, i ruoli tradizionalmente associati ai generi. Inoltre, vengono introdotti due elementi di grande importanza: la discriminazione e i ruoli tradizionali di genere. Anche se strettamente interconnessi, questi due hanno delle differenze cruciali, le quali risaltano nel modo in cui portano alla violenza sessuale nei conflitti.
La discriminazione perpetuata dai Khmer Rouge in Cambogia derivava da una divisione di classe presente in tempo di pace, che il regime esacerbò al fine di sostenere i propri ideali. Le divisioni presenti in Rwanda e Yugoslavia, d’altro campo, nascevano da decenni di discriminazione e odio basati sulle identità nazionali. All’interno di tale contesto, non solo le divisioni divennero forti tra i gruppi, ma anche all’interno di essi; il ruolo tradizionalmente ricoperto dalle donne, per esempio, era usato contro di loro, come nel caso delle bosniache musulmane in Yugoslavia, che furono oggetto di violenze sessuali al fine di attaccare gli uomini bosniaci musulmani.
Ciò è strettamente connesso alla seconda questione: quella dei ruoli di genere tradizionali, che hanno avuto un ruolo chiave nella perpetuazione della violenza sessuale nei conflitti in repubblica Democratica del Congo. Uno studio del 2018 di Bitenga e Moke, ha sottolineato come la violenza di genere sia connessa alla mascolinità e al patriarcato:
[…]The findings suggest that sexual violence lay dormant in gender norms and in the traditional perception of masculinity in peacetime and manifested during conflict with incredible severity and brutality[…]
Le ragioni psicologiche alla base della violenza di genere
Le norme sociali e la discriminazione, tuttavia, non sono gli unici elementi alla base di tale violenza: anche i fattori psicologici sono di grande importanza. Per comprenderli, Eriksson Baaz e Stern hanno distinto tra la storie di “sesso” e di “genere”.
Mentre la prima percepisce la violenza di genere come il risultato di un’urgenza biologica e, di conseguenza, un sottoprodotto della guerra basato sulla mascolinità, il secondo decostruisce l’idea che mascolinità e femminilità siano intrinsechi, e li percepisce come acquisiti mediante processi di socializzazione, fra cui quello sistema militare. Qualsiasi devianza dall’immagine del soldato “maschio” sarà considerata come “femminile” ed “effemminata”, e sarà contrastata. Tale comprensione della violenza di genere prende in considerazione come gli uomini possano anch’essi essere vittime di altri uomini, ma anche come le donne possano essere carnefici, e come non siano sempre passive e in necessità di protezione maschile.
Alla luce di tale distinzione, possono essere individuati numerosi elementi psicologici che portano alla perpetuazione della violenza sessuale nei conflitti. Alcuni di questi si ritrovano nelle condizioni di vita dei soldati. Nella Repubblica Democratica del Congo la militarizzazione fu strettamente connessa con la discriminazione di genere presente nella società prima del conflitto, e si evolse verso l’ipermascolinità. Ciò, unito alle circostanze molto aspre in cui vivevano i soldati, e alla mancanza di punizioni, portò ad un’ampia perpetuazione di violenza sessuale nei confronti della popolazione civile.
In Rwanda e Yugoslavia, come anticipato, le ragioni identitarie, principalmente connesse al concetto di etnia, furono cruciali nel determinare le violenze. Queste divisioni assunsero anche un particolare carattere strategico, in quanto la violenza sessuale era usata per combattere il nemico ed era perpetuata contro i civili con il particolare scopo di umiliazione e annichilimento “dell’altro”.
La rabbia di classe, la vendetta e l’ideologia erano alla base della perpetuazione della violenza sessuale in Cambogia. In effetti, i Khmer Rouge presero in considerazione molti aspetti delle tradizioni cambogiane e dei ruoli sociali tradizionali e li usarono come mezzi per perpetuare i loro scopi ed esercitare il controllo sulla popolazione. Uno dei risultati principali fu quello dei matrimoni forzati e degli stupri all’interno di queste unioni. Tuttavia, le violenze non ricevettero molta attenzione. Fu sono con le prime testimonianze delle vittime che alcuni soggetti iniziarono a studiare il fenomeno, tra cui l’Organizzazione psicosociale transculturale cambogiana e il fondo delle Nazioni Unite per terminare la violenza contro le donne.
Questi primi elementi mostrano una chiara connessione con quelli discussi in precedenza, dunque connettendo la violenza perpetuata in tempi di pace e in tempi di guerra. Tuttavia, vi sono altri tasselli da considerare.
Condanne e impunità della violenza di genere
Condanne e impunità della violenza di genere nei conflitti collegano la sua perpetuazione alla ricorrenza di retoriche e fattori problematici presenti in tempi di pace e di peace-building. I Tribunali Criminali Internazionali per il Rwanda (ICTR) e la Yugoslavia (ICTY) furono cruciali nell’aprire alla possibilità di considerare la violenza sessuale come un crimine contro l’umanità, un crimine di guerra e perfino a costituire un crimine di genocidio. Tuttavia, queste decisioni furono a volte minate dalla permanenza di stereotipi, come nel caso di Pauline Nyriamasuhuko, in cui la violenza sessuale commessa da una donna non fu considerata come crimine di genocidio, come invece accadde nel caso di Jean-Paul Akayesu.
Il sistema di giustizia nella Repubblica Democratica del Congo fallì diversamente dall’ICTY e ICTR. Tale sistema giudiziario era piagato da numerosi problemi connessi alla possibilità di accedere alle corti, conoscere le normative nazionali e internazionali e avere le risorse economiche necessarie per sostenere la propria causa. Inoltre, lo stigma e l’esclusione delle vittime di violenza sessuale dalle proprie comunità agivano da deterrente, per cui numerose persone non confessavano le violenze che avevano subito. Anche se lo Stato adottò delle leggi e delle normative cercando di punire i casi di violenza sessuale, esse non furono efficaci. Inoltre, l’impunità era connessa a meccanismi interni all’esercito stesso.
In Cambogia, i tentativi di giustizia arrivarono anni dopo la salita al potere dei Khmer Rouge, perciò molti dei perpetuatori erano già morti o molto anziani. Inoltre, poiché la violenza sessuale era formalmente proibita dal regime, molte vittime furono uccise per nascondere le prove. Inoltre, il matrimonio forzato e lo stupro coniugale, molto diffusi tra i militari, non erano considerati legalmente e socialmente come violenza.
Le Camere Straordinarie nelle Corti della Cambogia (ECCC), avevano lo scopo di perseguire chi si era macchiato di violenza sessuale. Tuttavia, gli ostacoli erano molti, così come nel Congo, vi erano una grande lacuna di risorse e paura, stigma e minacce, che impedivano alle persone di far sentire la propria voce, come mostrato nel seguente grafico. Alcuni tentativi di portare giustizia furono fatti da organizzazioni internazionali e della società civile, per esempio attraverso il progetto “Women and Transitional Justice in Cambodia”, che mirava a dare alle donne una voce e una piattaforma per parlare delle proprie sofferenze.
Securitizzazione: tra progressi e nuovi problemi
La presa di consapevolezza della nuova dimensione in cui veniva perpetuata la violenza sessuale nei conflitti nel ventesimo secolo raccolse l’interesse di attori internazionali, organizzazioni e società civili portando all’applicazione della teoria della securitizzazione a tale fenomeno.
La teoria della securitizzazione è solitamente associata alla Copenhagen School of security studies, dove è stata elaborata da Barry Buzan and Ole Wæver, e fu poi studiata ulteriormente da altri studiosi. La teoria di Buzan e Wæver si fondava sull’idea che qualunque questione, politica o meno, potesse diventare un problema di sicurezza, e, inoltre le normative in ambito di sicurezza fossero disegnate e create attentamente da politici e decisori per perseguire determinati scopi.
Nel ventesimo secolo, la questione della violenza sessuale nei conflitti iniziò ad esser considerata come un problema di sicurezza. Il principale risultato fu l’adozione di una serie di Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tuttavia, esse furono fortemente criticate per via della perpetuazione degli stessi elementi presenti alla base della discriminazione di genere, come le retoriche in merito ai ruoli di genere e la mancanza di presa di coscienza delle diverse forme di violenza, come evidenziato dalla Risoluzione 1325 (United Nations Security Council Res 1325 (31 October 2000), UN Doc S/RES 1325):
[…]Calls on all parties to armed conflict to take special measures to protect women and girls from gender-based violence, particularly rape and other forms of sexual abuse, and all other forms of violence in situations of armed conflict[…]
Alla luce di questi problemi, emerse la critica posta da Sara Meger, la quale criticò l’inclusione della violenza sessuale nei conflitti all’interno dell'educazione, dell’advocacy e delle politiche, affermando come ciò fosse risultato nella dissociazione di tali atti dal loro contesto e dalle loro radici strutturali, creando le condizioni per la sua feticizzazione. Quest’ultima si declina in tre stadi: decontestualizzazione o omogeneizzazione, oggettificazione e contraccolpo. La conseguenza è che la violenza sessuale nei conflitti diventa un bene nel senso economico, con determinati scopi per ogni attore. Tuttavia, ciò riproduce dei comportamenti preesistenti, relazioni sociali e ruoli sociali che sono alla base della perpetuazione della violenza stessa.
Peacekeeping e peacebuilding: amici o nemici?
Il risultato delle politiche e normative basate sulla securitizzazione non è solo teorico o politico, ma anche pratico, ovvero tali normative sono alla base delle operazioni di pace. L’analisi dell’impatto che il peacekeeping ha sulla sicurezza delle donne condotto da Ragnhild Nordås e Siri Rustad su trentacinque missioni di peacekeeping condotte tra il 1999 e il 2010, così come l’analisi delle ragioni alla base della violenza sessuali e degli abusi condotti dai peacekeepers, ha enfatizzzato una similarità tra quest’ultima e quella condotta nei conflitti. In tale contesto, la violenza sessuale causa un circolo vizioso degli stessi elementi che la provocano, come mostrato nella tabella sottostante.
Una soluzione, proposta dal Dipartimento delle Operazioni di Peacekeeping (DPKO) del Segretariato delle Nazioni Unite, è quella di incrementare il ruolo delle donne nelle operazioni di pace. Ciò può agire come deterrente, aumentando le possibilità che tali atti vengano alla luce. Tuttavia, come evidenziato da Rehn e Sirleaf, il modo in cui questa soluzione è stata elaborata evidenzia nuovamente quelli stereotipi e quelle divisioni di genere che sono alla base della violenza stessa. Inoltre, non c’è stata una pratica consistente e reale di ciò che è stato teorizzato.
La reiterazione delle norme di genere, dinamiche e retoriche che causano violenza mostrano la necessità di adottare normative e perseguire azioni di pace che tengano in considerazione la natura multi-laterale di tale problema e, soprattutto, di dare spazio alle vittime per partecipare alla ricostruzione, riconoscendo alle donne e agli uomini uguali opportunità di essere partecipanti in tali processi, ma anche tenendoli responsabili alla stessa maniera quando necessario.