Decisioni del 2022 della Corte Europea dei diritti umani in tema di femminicidio e misure per prevenire la violenza domestica in Italia

Sommario
- Il caso Landi c. Italia: femminicidio, ma senza discriminazione di genere
- I casi De Giorgi e M.S.: violenza domestica come violazione dell’art. 3 CEDU
- Altri casi: il procedimento d’ufficio per violenza sessuale su minore e la Convenzione di Lanzarote
Nel 2022, la Corte europea dei diritti umani ha adottato alcune significative sentenze contro l’Italia relative alla violenza domestica e alla prevenzione dei femminicidi, nonché su alcuni aspetti procedurali della reato di violenza sessuale sui minori.
Il caso Landi c. Italia: femminicidio, ma senza discriminazione di genere
Nel caso Landi (ricorso n. 10929/19, sentenza del 7 aprile 2022) la ricorrente lamenta la violazione degli art. 2 e 14 CEDU a causa della mancata adozione da parte delle autorità nazionali competenti delle misure di protezione necessarie per proteggere la sua vita e quella dei suoi figli a seguito delle violenze domestiche che il compagno aveva loro inflitto, culminate nell'omicidio del loro figlio di un anno e tentato omicidio della ricorrente. La ricorrente fra il 2015 e il 2018 aveva sporto varie denunce nei confronti del compagno (anche se successivamente le aveva quasi tutte ritirate), in quanto per ben quattro volte era stata vittima di aggressione. Inoltre, il compagno era già stato condannato per aggressioni nei confronti dell’ex compagna. La Corte doveva dunque valutare se le autorità italiane avevano adottato tutte le misure necessarie, in un contesto di violenza domestica già conclamato, per impedire violazioni future. La Corte nota che a seguito delle aggressioni subite dalla ricorrente e delle relative denunce presentate rispettivamente nel 2015, 2017 e 2018, nonostante gli interventi tempestivi dei carabinieri che avevano a loro volta segnalato alle autorità il comportamento pericoloso dell’uomo, affetto da seri problemi di salute mentale, la procura nei primi due episodi non aveva ritenuto di dover avviare alcuna indagine, mentre nel 2019, pur avviando il procedimento penale, non aveva né sentito la ricorrente, né disposto misure di protezione a suo riguardo. La Corte ha ritenuto che i giudici non abbiano agito con la diligenza necessaria per reagire immediatamente a delle accuse di violenza domestica, non avendo svolto una valutazione di rischio autonoma e proattiva. La Corte nota come le autorità fossero state informate dai carabinieri del comportamento pericoloso del compagno della ricorrente e vi fossero chiari indizi di pericolosià, tra cui la presenza di un tipico schema di escalation (dalle minacce alla donna e ai figli fino alle rietute aggressioni ficishe). Gli inquirenti erano anche a conoscenza della malattia mentale dell’uomo. Le autorità tuttavia non hanno adottato misure volte a proteggere la ricorrente. La Corte conclude che non è stato correttamente valutato e gestito il rischio legato alle violenze ricorrenti. L’inerzia delle autorità ha fatto sì che la ricorrente continuasse ad essere vittima di minacce, aggressioni e molestie del compagno (Volodina c. Russia, n. 41261/17 del 9 luglio 2019, e Opuz c. Turchia, n. 33401/02 del 9 giugno 2009). Alla luce del caso Kurt c. Austria ([GC], n. 62903/15 del 15 giugno 2021), in cui la Corte ha chiarito la portata e il contenuto degli obblighi positivi delle autorità nel contesto della violenza domestica ai sensi dell’art. 2 CEDU (reagire immediatamente alle denunce; accertare se esista un rischio reale e immediato per la vita e, se sussiste, adottare misure operative), la Corte ritiene le autorità dello Stato siano venute meno a tali obblighi. Il quadro normativo italiano - come ha riconosciuto anche il GREVIO verificando la conformità del quadro giuridico nazionale con l’articolo 55.1 della Convenzione di Istanbul - dispone di varie misure idonee a proteggere i membri della famiglia dalla violenza dei loro congiunti e che si possono attivare indipendentemente dal deposito di denunce o dal loro ritiro, o dal fatto che la vittima abbia mutato la propria percezione del rischio. La Corte ha dunque accertato all’unanimità che vi sia stata una violazione dell’art. 2 CEDU. Non ha tuttavia ritenuto che la vicenda dimostrasse anche una violazione dell’Art. 14 CEDU (discriminazione fondata, in questo caso, sul genere). La Corte ha ritenuto che non vi fosse la prova che i magistrati abbiano agito in modo o con intento discriminatorio nei confronti dell'interessata. A tal riguardo la Corte rammenta che può esservi violazione dell'articolo 14 solo nel caso di carenze generalizzate derivanti dal fatto che le autorità nazionali apertamente e sistematicamente non percepiscono la gravità, la portata e l'effetto discriminatorio sulle donne del problema della violenza domestica. Per la violazione dell’art. 2 CEDU la Corte ha condannato il governo italiano al pagamento di 32.000 euro a titolo di equo indennizzo per il danno morale, oltre al rimborso delle spese sostenute.
I casi De Giorgi e M.S.: violenza domestica come violazione dell’art. 3 CEDU
Nel caso De Giorgi (n. 23735/19, sentenza del 16 giugno 2022) la doglianza verte sulla violazione dell’art. 3 CEDU per la mancata protezione e assistenza da parte dello Stato contro la violenza domestica agita dal marito nei confronti della ricorrente e dei suoi figli. Fra il 2015 e il 2019, la ricorrente aveva presentato numerose denunce contro il marito per lesioni (era stata colpita in testa con un casco), minacce (comprese minacce di morte davanti ai figli), molestie, stalking (microfoni in casa, appostamenti e sorveglianza dei suoi spostamenti). Tuttavia, le autorità italiane non avevano mai adottato alcuna misura di tutela e protezione della ricorrente e dei suoi figli e avevano archiviato le denunce sostenendo che le dichiarazioni della ricorrente non erano “sufficientemente credibili in considerazione della elevata conflittualità esistente tra le parti”. La Corte, richiamando la propria giurisprudenza circa i criteri per qualificare quando un maltrattamento raggiunge il livello minimo di gravità per rientrare nel campo di applicazione dell’art. 3 CEDU, sottolinea che la ricorrente aveva subito violenze documentate da referti medici e testimoniate dai carabinieri e che tali condotte si erano ripetute nel corso di anni, come provato dalle numerose denunce. L’archiviazione di queste ultime ha ulteriormente esacerbato i sentimenti di ansia e impotenza. Per queste ragioni, la Corte conclude che la situazione rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 3 CEDU. La Corte, come fatto nel caso Landi, applica la giurisprudenza Kurt sugli obblighi positivi degli Stati per prevenire la violenza domestica, osservando che mentre i carabinieri erano intervenuti tempestivamente, anche richiedendo l’adozione di misure di protezione, il procuratore non aveva usato la diligenza necessaria avviando indagini rapide e effettive, tanto che i procedimenti legati alle denunce del 2015, del 2016 e 2017 al 2022 risultavano ancora pendenti. In particolare, secondo la CtEDU, le autorità giudiziarie, non hanno valutato con celerità e in forma proattiva il rischio di recidiva che emergeva dallo schema di escalation e non hanno adottato misure protettive, nonostante la richiesta dei carabinieri. La Corte all’unanimità accerta che vi è stata violazione degli aspetti materiali e procedurali dall’art. 3 CEDU e condanna il governo italiano al pagamento di 10.000 euro a titolo di risarcimento del danno morale, oltre a 6.983,75 a titolo di rimborso spese.
Nel caso M. S. (ricorso n. 32715/19, sentenza del 7 luglio 2022) la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 3 CEDU (tortura e trattamenti inumani) sia sotto il profilo materiale che sostanziale, a causa della mancata adozione di misure e garanzie procedurali necessarie per proteggerla dalla violenza domestica del marito. Fra il 2007 e il 2010 la ricorrente aveva presentato almeno cinque denunce per molestie, minacce e stalking del marito nei suoi confronti, chiedendo altresì in varie occasioni alle autorità competenti che venissero adottate celermente misure di protezione per tutelarla. Vari fatti denunciati dalla ricorrente erano nel frattempo caduti in prescrizione (per esempio l’aggressione con coltello denunciata ne 2007 e un’aggressione con un basto denunciata nel 2008), senza che fossero state adottate misure precauzionali adatte. Al fine di valutare se i fatti oggetto della doglianza raggiungano il livello minimo di gravità, è necessario valutare l’insieme degli elementi fattuali, in particolare la natura e il contesto del trattamento contestato, la sua durata, i suoi effetti fisici e psichici, ma anche il sesso della vittima e il rapporto esistente tra quest’ultima e l’autore del presunto reato. La Corte ha altresì ricordato che per la qualificazione di un trattamento come degradante non è necessario provare la presenza di sevizie, essendo sufficiente provare che la condotta umilia o svilisce un individuo, dimostrando mancanza di rispetto per la sua dignità di persona o sminuendola, ovvero che suscita nella vittima sentimenti di paura, angoscia o inferiorità tali da annientare la sua resistenza morale e fisica, (Bouyid c. Belgio [GC], n. 23380/09 del 28 settembre 2015). L'impatto psicologico della condotta (angoscia e stress) costituisce un aspetto centrale nei casi di violenza domestica (Valiulienė c. Lituania, n. 33234/07 del 26 marzo 2013, e Volodina c. Russia (n. 2), n. 40419/19 del 14 settembre 2021); lo stesso timore di nuove aggressioni può essere sufficientemente grave da indurre nelle vittime di violenza domestica una sofferenza e un'angoscia tale da configurare la violazione dell’articolo 3 CEDU (Eremia c. Repubblica di Moldavia, n. 3564/11 del 28 maggio 2013 e T.M. e C.M. c. Repubblica di Moldavia, n. 26608/11 del 28 gennaio 2014). A tal riguardo la Corte nota che la ricorrente in varie occasioni aveva lamentato un atteggiamento di coercizione e di controllo da parte del marito, che si manifestava in sorveglianza degli spostamenti, minacce, nonché lesioni fisiche accertate in ospedale.
La Corte nota che le autorità italiane hanno reagito effettivamente senza ritardo alle denunce della ricorrente, raccogliendo prove e adottando misure di allontanamento nei confronti dell’uomo e di protezione verso la ricorrente. Allo stesso tempo, però, nel periodo compreso fra la denuncia del 2007 (aggressione con un coltello) e quella del 2008 (aggressione con un bastone) le autorità hanno mancato di effettuare una valutazione immediata e proattiva del rischio di recidiva della violenza e di adottare delle misure operative e preventive al fine di attenuare questo rischio. Per tredici mesi le autorità non hanno adottato alcuna misura. Dal 2008 al 2019, invece, le autorità hanno valutato il rischio correttamente, cioè in modo autonomo, proattivo e esaustivo.
In conclusione, secondo la Corte lo Stato italiano ha violato l’art. 3 CEDU sotto il profilo materiale nel periodo 2007-2008. Circa il profilo procedurale, la Corte segnala che gli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 2 e dall’articolo 3 non si possono considerare rispettati quando un’indagine si chiude per effetto della prescrizione, cioè per un fatto riconducibile all’inattività delle autorità (si fa rinvio al Parere consultivo relativo all’applicabilità della prescrizione all’azione penale, alla condanna e alla sanzione per reati costitutivi, in sostanza, di atti di tortura [GC], domanda n. P16-2021-001 della Corte di cassazione armena del 26 aprile 2022, e alle decisioni ivi citate).
La Corte nota che a seguito delle denunce della ricorrente sono aperte quattro indagini (per aggressione, molestie e minacce e per maltrattamenti). In merito alla prima, avviata nel 2007, la sentenza di condanna di primo grado fu depositata nel 2015 e nel 2016 il reato fu dichiarato prescritto dalla Corte d’appello; i maltrattamenti denunciati nel 2008 si sono prescritti nel 2016; per una terza procedura aperta nel 2010 l’accertamento della prescrizione è avvenuta nel 2020 e in merito alla quarta procedura aperta nel 2013, essa è ancora pendente al 2022. Secondo la Corte, dunque, non è possibile affermare che le autorità italiane abbiano agito con sufficiente tempestività e diligenza. La chiusura di un procedimento per maltrattamenti o violenza domestica per prescrizione non è indice dell’esistenza di una protezione efficace contro tali condotte, se all'origine della prescrizione vi sono delle carenze da parte delle autorità (Valiulienė c. Lituania, n. 33234/07 del 26 marzo 2013). I reati legati alle violenze domestiche devono, secondo la Corte, rientrare tra le violazioni dell’art. 3, anche se riguardano la responsabilità di privati; è pertanto incompatibile con gli obblighi procedurali derivanti dall'articolo 3 che le indagini su tali delitti si concludano per intervenuta prescrizione a causa dell'inattività delle autorità. Il rapporto sull’Italia del GREVIO segnala come ritardi procedurali comportino ino molti casi la prescrizione dei reati di violenza domestica, compresi i maltrattamenti, le molestie e le violenze sessuali. La Corte sottolinea la particolare diligenza che richiede il trattamento delle denunce per violenze domestiche e il dovere degli Stati di lottare contro l’aspettativa di impunità di cui gli aggressori possono pensare di beneficiare e di sostenere piuttosto con la loro azione la fiducia dei cittadini nello stato di diritto, evitando qualsiasi condotta che possa apparire come tolleranza o collusione rispetto agli atti di violenza. La Corte ha dunque ritenuto che vi sia stata una violazione dell’art. 3 CEDU anche sotto il profilo procedurale perché, in primo luogo, l’autorità giudiziaria ha applicato anche in questi casi un sistema nel quale la prescrizione decorre anche dopo l'avvio di un procedimento ed è quindi strettamente legata all’efficienza all'azione giudiziaria; in secondo luogo perché gli inquirenti hanno condotto l'indagine penale in modo incompatibile con il quadro giuridico in materia di violenza domestica. La passività dimostrata dalle autorità, se costituisce violazione dell'art. 3 CEDU, non è stata però ritenuta configuare discriminazione (fondata sul genere) alla stregua dell’art. 14 CEDU in connessione con l’art. 3 CEDU. La Corte ha dunque riscontrato all’unanimità una violazione dell’art. 3 CEDU sotto il profilo materiale (per il periodo dal 2007 al 2008) e procedurale, attribuendo alla ricorrente un equo indennizzo di 10.000 euro. La Corte ha altresì respinto la dichiarazione unilaterale del Governo, con cui l?italia chiedeva la chiusura del caso senza condanna in quanto nel 2020 aveva dichiarato unilateralmente di riconoscere la propria responsabilità. La Corte ribadisce che la finalità delle sue sentenze non è solo quella di dirimere le cause, ma anche di salvaguardare e sviluppare le norme della Convenzione e contribuire in tal modo al rispetto, da parte degli Stati, degli impegni che hanno assunto.
Altri casi: il procedimento d’ufficio per violenza sessuale su minore e la Convenzione di Lanzarote
Nel caso G.L. e E.L. (ricorso n. 26101/20 del 6 settembre 2022) i ricorrenti lamentano la violazione degli art. 2, 3 e 8 della CEDU in quanto le autorità italiane non hanno adottato le misure necessarie di protezione e tutela per proteggere loro e la loro madre biologica dagli atti violenti commessi dalla zia e da suo marito. Il governo ha riconosciuto le violazioni e offerto il pagamento di un risarcimento per i danni morali subiti e le spese sostenute. I ricorrenti hanno accettato i termini della dichiarazione del governo e il ricorso è stato cancellato dal ruolo ai sensi dell’art. 37 CEDU.
Anche il caso D.K. (n. 14260/17, sentenza del 1° dicembre 2022) verte sull’art. 3 CEDU. La ricorrente lamenta che le autorità italiane non abbiano svolto indagini effettive sui presunti abusi sessuali subiti dalla ricorrente da parte dello zio. Nel 1999, quindici anni dopo le presunte violenze, la ricorrente e sua sorella avevano presentato una querela per abusi sessuali contro lo zio a cui la madre aveva affidato le due minorenni per la loro cura ed educazione. Le autorità italiane avevano però archiviato la querela perché presentata tardivamente, cioè oltre i tre mesi successivi al raggiungimento della maggiore età. La legge in vigore all'epoca infatti non prevedeva il procedimento d'ufficio. Nel 2003 la Corte d’Appello aveva respinto anche la domanda di risarcimento del danno formulata in sede civile, ritenendo che il tempo fatto passare tra i presunti abusi e la querela in sede penale rendeva le dichiarazioni delle querelanti non attendibili. La CtEDU comincia il suo ragionamento ricordando che le autorità nazionali hanno l’obbligo positivo di condurre un'indagine ufficiale effettiva per accertare i fatti e individuare e punire i responsabili in tutti i casi in cui sono riportati atti contrari all'articolo 3 CEDU. Nel caso di specie, le relazioni dello psicologo, le conclusioni della procura circa l’esistenza di seri indizi di violenza sessuale a carico dell’adulto e le accuse di stupro e di aggressione sessuale formulate dalla ricorrente all’indirizzo dell’uomo erano sufficientemente gravi per rientrare nell’ambito di applicazione dell'articolo 3 CEDU (v. X e altri c. Bulgaria ([GC], n. 22457/16 del 2 febbraio 2021). Le autorità, dunque, avevano l’obbligo di condurre indagini per chiarire tutte le circostanze della causa. Effettivamente, a seguito della querela della ricorrente, tali indagini sono state condotte, con l’audizione delle sorelle e della madre e l’acquisizione delle relazioni dello psicologo che seguiva le ragazze. All’epoca dei fatti (prima dell'entrata in vigore della Convenzione di Lanzarote, che fissa il principio della procedibilità d’ufficio dei reati sessuali commessi sui minori, stabilendo anche che il procedimento possa proseguire anche se la vittima ritira la denuncia), molti Stati europei prevedevano la querela di parte. Solo dopo l'entrata in vigore della Convenzione di Lanzarote, l'apertura d'ufficio di un'indagine, non subordinata a una denuncia della vittima, per ogni tipo di abuso sessuale su minori è diventata la regola per la maggioranza degli Stati, compresa l’Italia. Analogamente, le leggi nazionali hanno prolungato i termini di prescrizione per questi reati. Considerata la situazione all’epoca dei fatti, La Corte ha dunque ritenuto che la risposta delle autorità nazionali non sia stata così carente da costituire una violazione degli obblighi positivi derivanti dall’articolo 3 CEDU. La Corte ha ritenuto che l’irretroattività della normativa che ha introdotto la procedibilità d’ufficio in certi casi di violenza sessuale sui minori (legge n. 66 del 1996, che introduce, tra l’altro, l’art. 609-septies del codice penale, sulla procedibilità d’ufficio della violenza sessuale commessa dalla persona a cui il minore è affidato) non è incompatibile con la giurisprudenza della Corte. La stessa Convenzione di Lanzarote non richiede l'applicazione retroattiva di tale regola. La Corte conclude quindi, all’unanimità, che l'Italia non ha violato l’art. 3 CEDU.