Il Tribunale di Milano rimette alla Corte Costituzionale la questione di legittimità sulla discriminazione nell’accesso all’edilizia residenziale pubblica
Il 16 luglio 2025, il Tribunale di Milano ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’articolo 40, comma 6, del Testo Unico sull’Immigrazione (Decreto legislativo n. 286/1998) e dell’articolo 22, comma 1, lettera a), della Legge regionale Lombardia n. 16/2016. Le disposizioni in esame riguardano i requisiti di accesso all’edilizia residenziale pubblica per i cittadini stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata almeno biennale, ai quali è richiesto di dimostrare lo svolgimento di una “regolare attività lavorativa”, sia come lavoratori dipendenti sia come lavoratori autonomi.
Il caso trae origine da un ricorso promosso da diverse associazioni, tra cu ASGI, APN, NAGA e SICET Lombardia, in rappresentanza di due cittadini di Paesi terzi esclusi dalle graduatorie per l’assegnazione di alloggi pubblici gestiti da ALER Milano, in quanto privi del requisito lavorativo. Uno dei ricorrenti, cittadino egiziano con invalidità del 100% e inabilità permanente al lavoro, era stato licenziato proprio a causa della sua condizione, circostanza che ha messo in evidenza l’impatto discriminatorio della norma contestata.
La Questione di Legittimità Costituzionale
Il Tribunale di Milano ha ritenuto la questione di legittimità costituzionale rilevante e non manifestamente infondata, individuando possibili violazioni degli articoli 2 e 3, commi 1 e 2, della Costituzione, che sanciscono i principi di eguaglianza formale e sostanziale. Il giudice ha messo in dubbio la razionalità e la proporzionalità di subordinare l’accesso a un servizio sociale alla condizione lavorativa, richiamando la giurisprudenza della Corte Costituzionale, in particolare la sentenza n. 44 del 2020 (v. Annuario 2021, p. 212), che aveva dichiarato incostituzionale un requisito di residenza di una certa durata per l’accesso agli alloggi pubblici in Lombardia.
Secondo il Tribunale, il requisito lavorativo appare irragionevole rispetto alla finalità dell’edilizia residenziale pubblica, concepita come strumento di sostegno alle persone economicamente vulnerabili, la cui condizione di bisogno deriva spesso proprio dalla mancanza o dalla precarietà di un’occupazione. Inoltre, l’espressione “regolare attività lavorativa” risulta eccessivamente generica e soggetta a interpretazioni difformi, non tenendo conto della varietà dei rapporti di lavoro, della loro durata né del livello di reddito percepito.
Il giudice ha inoltre osservato che la norma altera la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica, ignorando situazioni di impossibilità di lavorare dovute a cause non imputabili al richiedente, come la disabilità. Concentrarsi esclusivamente sull’esistenza di un’attività lavorativa, ha osservato il Tribunale, può fornire un quadro distorto della reale condizione economica e sociale del richiedente. Un elemento centrale del ragionamento riguarda il fatto che il requisito del lavoro non è previsto per i richiedenti cittadini italiani o dell’Unione europea, con conseguente disparità di trattamento tra soggetti che si trovano in condizioni di bisogno equivalenti.
Diritto Europeo e Implicazioni Più Ampie
Il Tribunale di Milano ha scelto di non citare la possibile contrarietà della legge impugnata alla Direttiva 2011/98/UE, relativa al permesso unico per i cittadini di Paesi terzi, ritenendo che l’Italia si fosse legittimamente avvalsa della facoltà di deroga prevista dalla direttiva al momento del suo recepimento, mediante il Decreto legislativo n. 40/2014, come risulta dalla relazione illustrativa del decreto e da un dossier dell’Ufficio legislativo del Senato. Tuttavia, casi analoghi pendenti presso i Tribunali di Bologna e Torino potrebbero giungere a conclusioni differenti in merito al rapporto tra diritto nazionale e norme dell’Unione e considerare rilevante anche la direttiva citata.
Sospendendo il giudizio e rimettendo la questione alla Corte Costituzionale, il Tribunale di Milano si inserisce in un orientamento giurisprudenziale sempre più consolidato che contesta le barriere discriminatorie nell’accesso ai servizi sociali. La decisione sottolinea il crescente ruolo del controllo di costituzionalità nel garantire che le politiche sociali rispettino i principi di eguaglianza. La futura pronuncia della Corte Costituzionale sarà determinante per chiarire la compatibilità di tali requisiti, basati sull’attività lavorativa, con i principi costituzionali di eguaglianza e con il diritto fondamentale all’abitare, che la stessa Corte ha definito “uno dei requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” (sentenza 217/1988).