Corte europea dei diritti umani

Corte europea dei diritti umani: sentenze contro l'Italia relative all'applicazione retroattiva di leggi interpretative e all'impatto sui procedimenti pendenti - Articolo 6 CEDU

Nel 2022, la Corte europea dei diritti umani si è pronunciata su quattro casi riguardanti presunte violazioni dell'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU) in Italia, determinate da interventi legislativi che hanno inciso su procedimenti giudiziari pendenti, compromettendo così il diritto a un processo equo.
Alcuni giudici della Corte Europea per i Diritti Umani in seduta
© ©Council of Europe

Sommario

  • D’Amico contro Italia (17/02/2022)
  • Cianchella e altri contro Italia (23/06/2022)
  • Palaia contro Italia (10/11/2022)
  • Gusmerini e altri contro Italia (29/09/2022)

D'Amico c. Italia

Con la sentenza D'Amico c. Italia (n. 46586/14, sentenza del 17 febbraio 2022), la Corte europea dei diritti umani si è pronunciata su un ricorso relativo a un intervento legislativo durante un procedimento pendente, che secondo la ricorrente aveva violato il suo diritto a un processo equo ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Nelle circostanze del caso, il marito della ricorrente, A.C., era andato in pensione nel 1990. La sua pensione, ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 1, della legge n. 324/1959, comprendeva un'indennità integrativa speciale (IIS), costituita da un adeguamento al costo della vita separato dal pagamento della pensione principale.

All'epoca, le pensioni del settore pubblico includevano elementi separati come l'IIS, a differenza delle pensioni del settore privato.

Il 23 dicembre 1994, la legge n. 724/1994 ha armonizzato i regimi pubblici e privati e ha consentito ai pensionati pubblici esistenti, come A.C., di mantenere il pagamento integrale dell'IIS. Successivamente, la legge n. 335/1995 ha introdotto un nuovo sistema di calcolo delle pensioni, in cui l'IIS è stata inclusa nella pensione di base e calcolata in percentuale, ma non ha espressamente abrogato la legge precedente.

Dopo il decesso di A.C. nel 2002, il ricorrente ha ricevuto una pensione di reversibilità calcolata in base al nuovo sistema, versata in percentuale della pensione originaria complessiva di A.C. Nel 2005, il ricorrente ha presentato ricorso alla Corte dei conti della Basilicata contro l'INPDAP (ora INPS), rivendicando il diritto all'intero IIS. Nel 2007, la Corte dei conti della Basilicata ha accolto il ricorso del ricorrente, poiché la nuova legge si applicava solo alle pensioni versate dopo il 1° gennaio 1995. L'INPDAP ha impugnato la sentenza.

Mentre il ricorso era ancora pendente, è entrata in vigore la legge n. 296/2006. Tale legge ha fornito un'interpretazione autentica dell'articolo 1, comma 41, della legge n. 335/1995, stabilendo che il nuovo sistema di calcolo si applica a tutte le pensioni di reversibilità, anche se la pensione di base è stata concessa prima del 1995. La Corte costituzionale ha ritenuto che la riforma fosse costituzionalmente valida in quanto la nuova legge rafforzava il sistema pensionistico italiano. Di conseguenza, nel 2013, la Sezione centrale della Corte dei conti, in qualità di corte d'appello, ha ribaltato la sentenza di primo grado e respinto il ricorso del ricorrente.

Dinanzi alla Corte , la ricorrente ha sostenuto che, applicando retroattivamente la legge interpretativa a un caso ancora pendente dinanzi a un tribunale, l’Italia aveva violato il principio dell’indipendenza della magistratura, in violazione dell’articolo 6 della CEDU.

L’Italia ha contestato la ricevibilità del ricorso, difendendo la legittimità della legge interpretativa del 2006 (come successivamente confermato dalla Corte costituzionale). Il ricorso era quindi manifestamente infondato. Inoltre, l’Italia ha obiettato che la ricorrente non aveva subito un pregiudizio significativo, poiché l’importo complessivo da lei ricevuto era pari a 41 523 euro invece che a 50 762 euro se l’IIS le fosse stato versato integralmente ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 5, della legge n. 724/1994La Corte ha respinto il primo argomento, in quanto strettamente connesso al merito della causa.

Per quanto riguarda il secondo punto, ha osservato che la ricorrente era una pensionata anziana che dipendeva esclusivamente dalla pensione di reversibilità e ha dichiarato il ricorso ricevibile.

Nel corso del procedimento nel merito, l'Italia ha negato che lo Stato fosse intervenuto a favore di una delle parti in un procedimento pendente. La legge interpretativa del 2006 era stata adottata per risolvere l'incertezza derivante da due interpretazioni divergenti della legge n. 335/1995.

La Corte ha osservato che la legge n. 296/2006 era stata introdotta mentre il procedimento era ancora in corso. Essa ha effettivamente deciso l'esito della causa, avvantaggiando lo Stato e ponendo la ricorrente in una posizione di svantaggio. Poiché la Corte dei conti si era già pronunciata a favore della ricorrente, la Corte europea dei diritti umani non ha potuto comprendere perché fosse necessaria una nuova normativa per risolvere una controversia che era già stata sottoposta all'esame dei tribunali.

Inoltre, ha sottolineato che le divergenze giurisprudenziali dovrebbero essere risolte dai giudici superiori e non dalla legislazione.

La Corte europea ha riconosciuto l'obiettivo dell'armonizzazione delle pensioni e dell'equilibrio finanziario, ma tale obiettivo non costituisce un motivo sufficiente per consentire al Parlamento di intervenire e decidere l'esito di controversie giuridiche. A differenza di altri casi (in particolare Building Societies contro Regno Unito, nn. 21319/93 e altri, sentenza del 23 ottobre 1997, e OGIS-Institut Stanislas e altri contro Francia, nn. 42219/98 e 54563/00, sentenza del 27 maggio 2004), in cui i ricorrenti avevano sfruttato lacune o difetti involontari della legge che il Parlamento aveva cercato di correggere, la legge in questione era già chiara e completa. Pertanto, l'intervento legislativo era inutile e ingiustificato. Di conseguenza, la Corte europea dei Diritti umani ha constatato una violazione dell'articolo 6, paragrafo 1, della CEDU.

Per quanto riguarda il risarcimento, il ricorrente chiedeva 98 435,82 EUR a titolo di risarcimento del danno materiale e morale. La Corte ha condannato la Francia a versare al ricorrente 9 700 EUR a titolo di risarcimento del danno materiale, sulla base della perdita di opportunità, e 6 000 EUR a titolo di risarcimento del danno morale, oltre alle spese che potrebbero essere addebitate.

Poiché il ricorrente aveva chiesto anche il rimborso delle spese sostenute dinanzi alla Corte, senza quantificare tale richiesta e senza fornire alcun documento giustificativo, la domanda è stata respinta.

Cianchella e altri c. Italia

Anche nella causa Cianchella e altri c. Italia (n. 65808/13 e altri 2, 58494/14, 66370/14, sentenza del 23 giugno 2022), i ricorrenti, coniugi superstiti di dipendenti pubblici deceduti, hanno denunciato una violazione del loro diritto a un processo equo ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 1, della CEDU a causa di un'ingerenza legislativa durante il procedimento pendente. Come nel caso D'Amico, essi hanno sostenuto che l'indennità integrativa speciale avrebbe dovuto essere versata per intero. Tuttavia, mentre il loro ricorso era ancora pendente dinanzi alla Corte dei conti del Lazio, il Parlamento italiano ha emanato la legge n. 296/2006, il cui articolo 1, comma 774, ha reinterpretato retroattivamente la normativa vigente includendo l'indennità nella pensione di base, erogabile solo in percentuale. Tale intervento legislativo ha comportato il rigetto delle loro domande, decisione confermata in appello.

La Corte europea dei diritti umani ha riunito i ricorsi correlati e li ha dichiarati ricevibili, ritenendo che l'emanazione e l'applicazione della legge n. 296/2006 avessero interferito in modo ingiustificato con i procedimenti giudiziari pendenti, determinandone l'esito a favore dello Stato.

La Corte ha dichiarato all'unanimità che vi era stata una violazione dell'articolo 6, paragrafo 1, della CEDU a causa dell'intervento legislativo retroattivo che aveva privato i ricorrenti di un giudizio equo sui loro diritti civili.

Due ricorrenti non hanno ricevuto alcun risarcimento per non aver presentato le loro richieste in tempo, mentre alla terza ricorrente, con il ricorso n. 65808/13, sono stati riconosciuti 4.804 euro a titolo di risarcimento del danno materiale e 6.000 euro a titolo di risarcimento del danno morale, sulla base di una valutazione equa; la sua richiesta di rimborso delle spese legali è stata respinta per mancanza di prove a sostegno.

Palaia c. Italia

La legge 296/2006 è al centro della causa Palaia c. Italia (n. 23593/14, sentenza del 10 novembre 2022).

La ricorrente lamentava che l'intervento legislativo, che imponeva un'interpretazione definitiva di una precedente legge sul sistema pensionistico mentre era ancora pendente il procedimento per la risoluzione di una controversia in materia pensionistica, le aveva negato il diritto a un processo equo ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 1, della CEDU.

Il padre della ricorrente, F.P., era un pensionato che aveva trasferito i contributi pensionistici versati in Svizzera per diversi anni di lavoro, in base alla Convenzione italo-svizzera sulla sicurezza sociale del 1962. Nel 2005, F.P. ha presentato ricorso al Tribunale di Lecce, sostenendo che il metodo di calcolo dell'INPS era incompatibile con la Convenzione italo-svizzera sulla sicurezza sociale del 1962.

Tuttavia, il suo ricorso è stato respinto perché il 1° gennaio 2007 è entrata in vigore la legge n. 296/2006, che ha introdotto una nuova interpretazione giuridica a sostegno del metodo di calcolo utilizzato dall'INPS. Di conseguenza, F.P. ha presentato ricorso alla Corte d'appello di Lecce il 4 febbraio 2013, che ha confermato la sentenza del 1° dicembre 2008 del Tribunale di Lecce.

Il 25 maggio 2012, mentre il procedimento era ancora pendente dinanzi alla Corte d'appello di Lecce, F.P. è deceduto. Il ricorrente, in qualità di erede di F.P., non ha presentato ulteriore ricorso alla Corte di cassazione, ritenendolo inutile alla luce della nuova normativa e della giurisprudenza prevalente. Il 1° febbraio 2018 è stata notificata all'Italia la domanda. Il 4 febbraio 2019, la vedova e i due figli di F.P. hanno informato la Corte europea dei diritti umani di essere anch'essi eredi di F.P. e di voler partecipare al procedimento avviato dal ricorrente.

L'Italia ha contestato la ricevibilità del caso perché gli eredi non avevano informato la Corte della loro intenzione di proseguire il ricorso diversi anni dopo la morte di F.P. Tuttavia, la Corte ha dichiarato il caso ricevibile, in quanto il ricorso non era manifestamente infondato né inammissibile per nessun altro motivo elencato nell'articolo 35 della CEDU. A suo avviso, il ricorrente, in qualità di erede di F.P., aveva un «interesse pecuniario concreto» nel procedimento. La vedova e i figli di F.P. non potevano invece partecipare al procedimento, in quanto non avevano dimostrato un interesse sufficiente alla causa e avevano manifestato la loro intenzione di intervenire sei anni dopo la morte di F.P., senza fornire alcuna giustificazione per il ritardo.

Nel merito, la Corte ha ritenuto che il governo italiano fosse intervenuto a favore di una delle parti nel procedimento giudiziario in corso adottando la legge impugnata. Di conseguenza, vi era stata una violazione dell’articolo 6 della CEDU. Ha osservato che le circostanze del caso di specie erano simili, sia dal punto di vista fattuale che giuridico, a quelle descritte nelle cause Maggio e altri c. Italia (nn. 46286/09 e altri quattro, sentenza del 31 maggio 2011) e Stefanelli e altri c. Italia (nn. 21838/10 e altri sette, sentenza del 1° giugno 2017).

La Corte europea dei diritti umani ha condannato l'Italia a versare al ricorrente un risarcimento di 17 675 euro per il danno materiale e di 5 000 euro per il danno morale. Inoltre, non ha concesso il rimborso delle spese e dei costi sostenuti dal ricorrente, poiché questi non aveva presentato alcuna richiesta in tal senso.

Gusmerini e altri c. Italia

Una questione analoga è stata sollevata nella causa Gusmerini e altri c. Italia (ricorso n.50345/10, sentenza del 29 settembre 2022), che riguardava cinque ricorsi riuniti.

Nella sua sentenza, la Corte europea dei Diritti umani si è pronunciata su presunte violazioni del diritto a un processo equo ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 1, della CEDU e dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU, relative a un intervento legislativo nel corso di un procedimento civile.I ricorrenti hanno lamentato, ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 1, che l'adozione dell'articolo 1, comma 777, della legge n. 296/2006 violava il loro diritto a un processo equo.

Essi hanno inoltre sostenuto che tale disposizione costituiva un'ingerenza ingiustificata nei loro beni, in violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU.

In qualità di pensionati, i ricorrenti avevano trasferito i contributi pensionistici versati in Svizzera per diversi anni di lavoro, ai sensi della Convenzione italo-svizzera sulla sicurezza sociale del 1962. Essi hanno inoltre presentato ricorso dinanzi al Tribunale di Lecce, sostenendo che il metodo di calcolo della pensione applicato dall'INPS era incompatibile con la convenzione italo-svizzera. Il tribunale ha tuttavia respinto i loro ricorsi a causa dell'entrata in vigore della legge n. 296/2006 nel corso del procedimento.

Considerando la propria giurisprudenza (Maggio e altri c. Italia, nn. 46286/09 e altri quattro, sentenza del 31 maggio 2011, e Stefanelli e altri c. Italia, nn. 21838/10 e altri sette, sentenza del 1° giugno 2017), che riguardava circostanze praticamente identiche, la Corte ha constatato una violazione dell'articolo 6 della CEDU.

Per quanto riguarda i ricorsi presentati ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, i ricorrenti hanno sostenuto che la legge n. 296/2006 aveva comportato per loro una pensione molto inferiore a quella cui avevano diritto. Tuttavia, la Corte ha respinto tali ricorsi per motivi diversi.

I ricorsi nn. 51045/10, 53300/10 e 53301/10 sono stati dichiarati incompatibili ratione personae con la CEDU ai sensi dell'articolo 35, paragrafo 3, lettera a), e respinti ai sensi dell'articolo 35, paragrafo 4, della CEDU, in quanto i ricorrenti non hanno dimostrato alcuna interferenza con i loro beni.

L'Italia aveva sostenuto che l'importo delle pensioni non sarebbe stato più elevato anche senza l'applicazione della legge. In risposta, i ricorrenti hanno ammesso di non avere accesso ai dati pertinenti.

Il ricorrente nel caso n. 50345/10 aveva chiesto una riduzione della pensione dello 0,62%. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che tale riduzione minima, inferiore alla metà della pensione, fosse ragionevole. La domanda è stata ritenuta manifestamente infondata e respinta ai sensi degli articoli 35, paragrafo 3, lettera a)35, paragrafo 4, della CEDU.

I ricorrenti nelle cause nn. 51064/10 e 53223/10 sostenevano di aver perso più della metà della loro pensione. Tuttavia, sulla base dei dati dell'INPS, la Corte europea dei Diritti umani ha osservato che le pensioni che avrebbero ricevuto senza la legge erano in realtà pari o inferiori agli importi effettivamente percepiti.

Poiché i ricorrenti non hanno fornito prove che giustificassero un calcolo diverso, la Corte ha stabilito che essi non potevano ritenersi vittime di una violazione ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1.

Di conseguenza, è stata constata una violazione dell'articolo 6, paragrafo 1, della CEDU, ma non una violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1. Per quanto riguarda il danno patrimoniale, la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto che non fosse necessario concedere alcun importo, citando i calcoli dell'INPS e le sue precedenti conclusioni (Stefanelli e altri c. Italia (n. 21838/10 e altri sette, sentenza del 1° giugno 2017). Tuttavia, la Corte ha condannato lo Stato a versare congiuntamente ai ricorrenti 3.000 euro a titolo di spese e onorari, oltre alle imposte applicabili.

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