Corte europea dei diritti umani

Sentenza della Corte europea dei diritti umani sulla restituzione all'Italia dell'"Atleta Vittorioso"

Per decenni, l'Italia ha rivendicato la restituzione dell'"Atleta Vittorioso", antico bronzo greco, dal Getty Museum. Dopo un lungo e complesso percorso iniziato nel 2012, quando il ricorso fu originariamente presentato, una decisione della Corte Europea  dei Diritti dell'Uomo del 2 maggio 2024 conferma che l’azione portata dall’Italia nei confronti del museo americano non viola il diritto al pacifico godimento della proprietà per come sancito dalla Convenzione Europea. Questa decisione è stata positivamente accolta in Italia e nel mondo dell'arte.
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Il 2 maggio 2024, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (CtEDU) ha respinto il ricorso del Getty Trust che gestisce il Getty Museum di Los Angeles riguardante l'antica statua greca in bronzo nota come "Atleta Vittorioso". Dal 1977, questa scultura è stata esposta come parte integrante della collezione del Getty Museum e come uno dei pezzi più celebri.

Il contesto

I ricorrenti sostenevano che, ordinando la confisca della statua (una decisione in tal senso è stata emessa dal Tribunale di Pesaro nel 2007 e reiterata nel 2018; la Corte di Cassazione italiana l'ha confermata nel 2019), l'Italia avesse violato il loro diritto al pacifico godimento della proprietà, garantito dall'Articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU).

Nel 1964, il bronzo fu scoperto da alcuni pescatori italiani nel Mar Adriatico. Il pezzo presto scomparve e gli inquirenti italiani avviarono indagini penali per furto e trasferimento illegale di beni culturali. La statua riapparve in Germania negli anni '70, ma le autorità tedesche respinsero le richieste italiane di sequestrare l'oggetto e di incriminare il possessore per ricettazione. Nel 1977 la statua fu infine venduta alla Fondazione Getty per 3,95 milioni di dollari. L'Italia ha costantemente operato attraverso canali diplomatici per ottenere la restituzione dell'opera d'arte, sostenendo che facesse parte del patrimonio culturale e artistico nazionale. Nel 2006, dopo che emerse il sospetto che, durante la contrattazione con il mercante d'arte tedesco, i funzionari della Fondazione Getty avessero espresso dubbi sulla potenziale provenienza illecita del pezzo, il tribunale di Pesaro riaprì il caso. I giudici argomentarono che, anche se risultava ormai impossibile riaprire il caso penale per l'esportazione illegale della statua, il museo americano era tenuto a restituirla all'Italia. Le autorità americane tuttavia, nonostante gli accordi di cooperazione giudiziaria in vigore tra Italia e Stati Uniti, non hanno mai eseguito l'ordinanza del tribunale italiano. I negoziati per ottenere la restituzione della statua all'Italia sono ancora in corso.

Davanti alla CtEDU, il Getty Trust ha sottolineato che la statua è stata trovata scoerta in acque internazionali (non quindi in territorio italiano), è stata creata da un autore greco e infine acquisita legalmente da un mercante d'arte tedesco. Pertanto, secondo il Getty Museum, nessuna condotta illecita può essere attribuita all’attuale possessore e, emettendo l'ordinanza di confisca, l'Italia stava interferendo illegalmente sul suo diritto di proprietà sull'oggetto.

 

Le ragioni della sentenza

La CtEDU ha stabilito che gli sforzi giudiziari e diplomatici dell'Italia per proteggere il suo patrimonio culturale contro lo sfruttamento illegale e i suoi tentativi per recuperare l’oggeto sono legittimi e non violano il diritto della Fondazione Getty ai sensi dell'Art. 1, Protocollo I della CEDU. La sentenza si basa, oltre che sulla CEDU, anche su diversi strumenti giuridici internazionali ed europei, tra cui la Convenzione UNESCO del 1970 sulla prevenzione del trasferimento illegale di beni culturali, la Convenzione UNIDROIT del 1995 sui beni culturali, la Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, la Direttiva UE 2014/60/UE sui beni culturali illecitamente rimossi dall'Europa e il Regolamento 116/2009/CE sull'esportazione di beni culturali.

La CtEDU ha ritenuto che la Fondazione Getty, sebbene non coinvolta nell'esportazione illecita della statua, non possa sostenere che le misure di restituzione successivamente messe in moto dall'Italia fossero imprevedibili. In particolare, secondo la legge italiana in vigore dagli anni '70 dello scorso secolo, un'ordinanza di confisca per motivi di interesse pubblico può essere indirizzata a un soggetto terzo proprietario dell'oggetto in questione anche se il destinatario non ha partecipato in alcun modo al reato; la confisca, inoltre, non deve essere necessariamente considerato una misura punitiva. Il fatto che la confisca sia stata ordinata molti anni dopo la contestata acquisizione è irrilevante, poiché la CtEDU ricorda che, nel campo della difesa del patrimonio culturale, "gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, non da ultimo perché la misura in questione persegue lo scopo di recuperare un oggetto unico e insostituibile." La confisca era, quindi, una misura non solo prevista dalla legge ma anche legittima, in quanto ordinata nel perseguimento dell'interesse pubblico. L'affermazione che il bronzo facesse parte del patrimonio culturale italiano, infatti,  non può ritenersi arbitraria o irragionevole. Infine, la misura della confisca è da considerarsi proporzionata, visto che, come ha affermato la CEDU, "i rappresentanti del Trust, nell'acquistare la statua, sono stati, nel migliore dei casi, negligenti, se non in malafede" (sebbene una certa negligenza possa essere imputata anche alle autorità italiane).

Quando l'Italia tentò per la prima volta di reclamare il bronzo, il compito si rivelò complicato a causa di alcune carenze della legge sui beni culturali vigente all’epoca. In particolare, le norme introdotte negli anni '30 del secolo scorso per la protezione del patrimonio culturale nazionale si applicavano solo agli oggetti trovati sul territorio italiano, generando incertezza nel caso di un oggetto trovato in acque internazionali. Dopo la riforma della legislazione intervenuta negli anni '70, l'Italia ha esteso il campo della protezione dei beni culturali, permettendo di reclamare qualsiasi artefatto di valore artistico-culturale in possesso di terzi. Quando il museo americano acquisì la statua, la giurisprudenza italiana non era unanime sull'interpretazione della legge in materia, e il museo ha invocato tale incertezza a propria difesa. Tuttavia, la CtEDU ha ritenuto l’argomentazione della Fondazione Getty basata su opinioni obsolete e quindi insufficiente.

In conclusione, la CEDU ha dichiarato che l'acquisizione di una statua antica di provenienza ignota da parte del Getty Museum ha minato lo spirito delle convenzioni che proteggono il patrimonio culturale e il titolo così acquisito non può essere protetto dal diritto al pacifico godimento della proprietà. A sostegno di tale conclusione la CtEDU osserva che esiste un "forte consenso nel diritto internazionale ed europeo riguardo alla necessità di proteggere gli oggetti culturali dall'esportazione illecita e di restituirli al loro paese d'origine." La sentenza della CEDU è diventata definitiva nell'agosto 2024.

Ricadute generali della sentenza

Questa decisione della CtEDU ha rilanciato il dibattito sulla restituzione dei beni culturali ai paesi da cui sono stati illecitamente prelevati. Per esempio, nel novembre 2024, il Governo francese ha deciso di consegnare oggetti culturali provenienti dall’Etiopia al Museo Nazionale di Addis Abeba attraverso canali diplomatici. Gli oggetti, che comprendono due asce preistoriche a doppia faccia in pietra e un cutter in pietra, erano stati estratti da un sito archeologico vicino alla capitale etiope gestito in base a un trattato bilaterale franco-etiope ed erano a Parigi fin dagli anni '80.

Questa è una sentenza di grande importanza nel contesto più ampio del dibattito sulla proprietà di artefatti che sono critici per il patrimonio culturale di uno stato. Una delle controversie più significative riguardanti la restituzione di beni culturali nel contesto europeo è quella relativa ai marmi del Partenone (o di Elgin). I marmi facevano parte della facciata del Partenone da cui furono rimossi e trasferiti da Atene al British Museum su iniziativa del Conte di Elgin. Il caso è abbastanza diverso da quello della sentenza Getty, poiché la rimozione avvenne, all'inizio del XIX secolo, con l’autorizzazione fornita dalle autorità dell’impero ottomano che all’epoca comprendeva la Grecia. La giurisdizione della CEDU e l'applicabilità dell'Articolo 1 del Protocollo 1 alla CEDU sarebbero presumibilmente più complesse da dimostrare. Le collezioni del British Museum sono protette dal British Museum Act del 1963; i molti tentativi di negoziato e mediazione attraverso canali diplomatici, compresa la mediazione dell'UNESCO, non hanno ancora risolto la controversia.

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