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La Cassazione a sezioni unite dice che nel caso Diciotti l'Italia ha trattenuto illegalmente i migranti e dovrà risarcire il danno non patrimoniale

Rifugiati in struttura di accoglienza
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Sommario

  • Alcuni casi collegati: i procedimenti penali “Gregoretti” e “Open Arms” contro il Ministro dell’Interno Salvini 
  • Il ricorso contro le sentenze del tribunale e della Corte d’appello di Roma 
  • Il divieto di sbarco non è un atto politico
  • L’errore inescusabile dell’amministrazione dello Stato
  • Una violazione della libertà personale. Il caso Khalifia davanti alla Corte europea dei diritti umani
  • Il danno come conseguenza della privazione della libertà personale e il diritto al risarcimento 
  • Conclusioni. Separare la dialettica politica dalle misure che incidono sui diritti umani

La Cassazione, a sezioni unite civili, con ordinanza pubblicata il 6 marzo 2025 (R.G.N. 17687/2024), ha accolto il ricorso presentato da M.G.K., cittadino eritreo, contro la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1803 del 13 marzo 2024 che aveva respinto la domanda di risarcimento danni non patrimoniali presentata dal ricorrente insieme ad altri connazionali conseguenti al loro trattenimento in condizione di detenzione a bordo della nave “Diciotti” della Guardia Costiera italiana tra il 16 e il 25 agosto 2018. Secondo la Cassazione, il ricorrente ha diritto a un risarcimento, che dovrà essere definito dalla stessa Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione interviene su una controversia che ha visto coinvolti, in separati giudizi, anche esponenti del governo italiano che, nell’agosto 2018, avevano imposto di bloccare l’accesso ai porti italiani di migranti irregolari tratti in salvo da navi dello stato o imbarcazioni di ONG umanitarie. Sulla vicenda della nave “Ugo Diciotti” era infatti stata ipotizzata la responsabilità penale per sequestro di persona e rifiuto di atti  d’ufficio dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. La sezione del tribunale di Catania competente per i reati ministeriali aveva chiesto il rinvio a giudizio per l’esponente politico, ma il 19 marzo 2019 il Senato (ramo del Parlamento in cui il Ministro Salvini era stato eletto) aveva votato per la sua immunità. 

Alcuni casi collegati: i procedimenti penali “Gregoretti” e “Open Arms” contro il Ministro dell’Interno Salvini 

È utile ricordare che Il caso relativo alla nave “Diciotti” si ricollega a quelli riguardanti altre occasioni in cui il governo italiano aveva impedito lo sbarco sul territorio nazionale di migranti soccorsi in mare, in attuazione di norme adottate tra il 2018 e il 2019. In particolare, ciò era avvenuto per la nave “Gregoretti”, vascello della Guardia Costiera italiana con a bordo circa 60 migranti imbarcati il 25  luglio 2019, e per una nave operata dalla ONG spagnola “Proactiva Open Arms”, che tra il 1 e il 20 agosto 2019 ha dovuto trattenere a bordo circa 150 migranti a cui era impedito l’accesso al territorio italiano per ordini promananti da esponenti governativi. Nel caso “Gregoretti”, il “tribunale dei ministri” competente, quello di Catania, aveva richiesto il rinvio a giudizio del ministro dell’Interno Salvini, ottenendo dal Senato l’autorizzazione a procedere nel febbraio 2020; il procedimento si era poi chiuso con sentenza di non luogo a procedere da parte del giudice dell’udienza preliminare di Catania, perché “il fatto non sussiste”. Anche nel caso nato intorno alle operazioni di soccorso della nave della ONG “Open Arms”, il Senato aveva negato l’immunità all’esponente del governo (voto del il 30 luglio 2020); nell’aprile 2021, il giudice dell’udienza preliminare aveva disposto il rinvio a giudizio del Ministro Salvini per i reati di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Il ministro è stato poi prosciolto in primo grado dal tribunale di Palermo con decisione del 20 dicembre 2024, sempre con la formula “perché il fatto non sussiste”.

Il ricorso contro le sentenze del tribunale e della Corte d’appello di Roma 

Nel 2018, M.G.K. e altri cittadini eritrei erano a bordo della “Diciotti”, presenta un ricorso al tribunale di Roma per ottenere dal governo italiano il risarcimento dei danni subiti a causa del forzato trattenimento a bordo della nave tra il 16 e il 25 agosto 2019. Il tribunale respinge il ricorso, affermando che la scelta del governo di ritardare l’indicazione del luogo sicuro per lo sbarco dei migranti e poi di non consentire per alcuni altri giorni lo sbarco stesso nel porto prescelto di Catania doveva considerarsi un “atto politico”, motivato dalla necessità di gestire la tensione tra Italia e Malta circa i rispettivi obblighi di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali e di rivedere le regole dell’Unione Europea in materia di ripartizione degli oneri di accoglienza dei migranti irregolari in arrivo sul territorio europeo. Su tale scelta, la giustizia italiana non poteva avere giurisdizione. 

La sentenza di primo grado è stata impugnata davanti alla Corte d’appello di Roma. Quest’ultima, con sentenza n. 1803 del 13 marzo 2024 ha escluso che la decisione governativa di negare lo sbarco ai migranti presenti sulla nave “Diciotti” potesse essere considerata un insindacabile “atto politico”, qualificandola invece come atto di alta amministrazione, richiesto dalle norme internazionali in materia di protezione della sicurezza in mare (la convenzioni SOLAS e SAR). La Corte, però, non riscontrava alcuna colpa nella condotta del governo italiano e quindi respingeva la domanda di risarcimento del danno.

Contro questa decisione verte il ricorso di M.G.K., che denuncia la violazione degli articoli 13 (libertà personale), 24 (accesso alla giustizia), 111 (giusto processo) e 117.1 (rispetto dei trattati internazionali) della Costituzione, dell’art. 5 della Convenzione Europea dei diritti umani (CEDU) (libertà personale), dell’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE) (libertà e sicurezza individuale), nonché gli articoli 7 e 14 della direttiva 2008/115/CE (direttiva rimpatri). Il fatto che per svariati giorni i ricorrenti siano stati privati della libertà personale senza giustificazione legale è motivo sufficiente per attribuire loro un risarcimento. Lo stato italiano, dal canto suo, chiede che la Cassazione ribadisca che la scelta dell’allora governo (in particolare del Ministro dell’Interno) di non indicare con prontezza il “luogo sicuro” (“place of safety” – POS) in cui far sbarcare i naufraghi tratti in salvo a completamento dell’operazione di search and rescue (SAR), nonché il divieto di sbarco seguito all’indicazione come POS del porto di Catania deve essere considerata come atto politico insindacabile, da cui non può derivare nessun danno risarcibile. L’attesa dei migranti a bordo della nave militare italiana, infatti, si giustificava con la necessità di giungere a un chiarimento politico con le autorità maltesi e con i partner dell’UE circa le modalità di gestione delle operazioni SAR e di “redistribuzione” dei migranti irregolari tra vari paesi europei. 

Il divieto di sbarco non è un atto politico

Il primo punto che le sezioni unite della Corte di cassazione affrontano è quindi stabilire il carattere “politico” della scelta fatta dal governo italiano di non permettere lo sbarco dei migranti. Un atto politico in senso stretto, secondo la Cassazione, deve rivestire specifici caratteri soggettivi e oggettivi, ed è per sua natura eccezionale. Dal punto di vista soggettivo, deve provenire da un organo preposto all'indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello. Dal punto vi sta oggettivo, deve essere un atto libero nel fine e riguardare la vita dei pubblici poteri dello stato. La qualifica di un atto come “politico” deve essere intesa come eccezionale. In effetti, gran parte degli atti di un governo sono soggetti a qualche norma di legge, in particolare quando incidono su diritti individuali. Sono quindi generalmente soggetti al controllo giurisdizionale. La Cassazione quindi conclude che il diniego di indicare il POS e il successivo divieto di sbarco imposto ai migranti non possono essere considerati atti politici in senso oggettivo, sottratti al controllo giudiziario, poiché, benché rientrino in un disegno attribuibile ai vertici del governo e specificamente ascrivibili al Ministro dell’Interno, comunque non attengono “alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali”. Sono quindi atti amministrativi, ancorché ispirati da finalità politiche, e non possono essere sottratte a un giudizio di legittimità. In questo caso, poiché l’atto incide su diritti soggettivi di valore costituzionale, la sua legittimità è valutata dal giudice civile.

L’errore inescusabile dell’amministrazione dello Stato

Il passo successivo riguarda l’accertamento di una “colpa” in capo all’istituzione statale che ha agito. Secondo la Corte d’appello, lo Stato non è in colpa in quanto, da un lato, la normativa internazionale in merito alla indicazione del POS è complessa e non univoca, per cui i giorni giorni impiegati per effettuarla non possono essere considerati irragionevoli; dall’altro, la normativa vigente non impone un termine per definire il POS e procedere alle operazioni di sbarco. A parte il caso in cui vi sia un imminente pericolo di vita, gli individui tratti in salvo non hanno un “diritto di sbarco” e lo Stato deve avere il tempo per bilanciare tutti gli opportuni elementi (dinamiche internazionali e eventuali accordi bilaterali, contrasto dell’immigrazione clandestina, tutela dell’ordine pubblico, ecc.), oltre alle valutazioni tecniche e logistiche, pur essendo naturalmente tenuto a contenere il più possibili il disagio per le persone coinvolte. Se ne ricava che, pur avendo causato considerevoli disagi ai migranti, il loro trattenimento sulla nave “Diciotti” non fa nascere una responsabilità per danno ingiusto.

Secondo le Sezioni Unite della Cassazione, però, tale impostazione non è quella corretta. Il punto da cui partire, infatti, non è l’indicazione del POS e le successive operazioni di sbarco, ma l’obbligo di soccorso in mare, stabilito dalla consuetudine internazionale e ribadito nella normativa internazionale e interna. La Convenzione SAR, in particolare, impone agli Stati che intervengono nel salvataggio di naufraghi in mare di indicare un POS. Di questo è responsabile, per l’ordinamento italiano, il Ministro dell’Interno. Un POS è il luogo in cui, tra le altre cose, si possa esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale e si possano svolgere le procedure di identificazione previste dall’art. 10-ter del Testo Unico sull’Immigrazione (d.lgs 286/1998). Una nave, per quanto si tratti di un’imbarcazione della Guardia Costiera, non può essere considerata un POS (in senso conforme: Cassazione penale, sent. 6626/2020, sul caso della nave “Sea Watch” – v. Annuario 2021, p. 204-5; Yearbook 2021, p. 200-1). L’indicazione di un POS è un atto amministrativo che il Ministero è tenuto a effettuare senza ritardo; l’identificazione della località di sbarco rientra nella discrezionalità delle autorità di governo, che possono indicare un luogo diverso astrattamente più plausibile, il più vicino al luogo dell’operazione di soccorso, per esempio, dovendo prendere in considerazione molteplici esigenze “tecniche”. Non è quindi corretto dire che le norme in materia non sono chiare e univoche: lo sono, nella misura in cui non devono essere condizionate da valutazioni di ordine politico, quali sono il controllo dei flussi migratori o le politiche migratorie nazionali o europee. Sono queste valutazioni politiche invece ad avere ritardato di svariati giorni lo sbarco a Catania dei circa 150 migranti tratti in salvo. Proprio queste considerazioni politiche dovevano rimanere estranee all’ambito decisionale nel caso in questione. È questo l’errore inescusabile che le autorità italiane hanno commesso.

Una violazione della libertà personale. Il caso Khalifia davanti alla Corte europea dei diritti umani

Queste considerazioni assumono particolare rilievo alla luce del particolare valore che il divieto di sbarco ha intaccato. Infatti, è stata compressa la libertà personale, ed è la violazione di questo diritto fondamentale  – un tema che nella sentenza della Corte d’appello di Roma è quasi totalmente assente – ciò che più conta, secondo la Cassazione, nel concludere per la illegittimità del danno causato al ricorrente e quindi per il suo diritto a un risarcimento in base all’art. 2043 del Codice Civile (responsabilità extracontrattuale per danno ingiusto). 

Il trattenimento dei migranti sulla nave Diciotti ha infatti comportato una lesione al diritto protetto dall’art. 13 Cost., nonché dagli articoli 5 CEDU, 6 CDFUE, 3 Dichiarazione universale dei diritti umani e 9 del Patto sui diritti civili e politici. 

L’art. 5 CEDU è particolarmente pertinente in questo caso, poiché le sentenze Khlaifia e Altri c. Italia (della Camera, Khlaifia and Others v. Italy, no. 16483/12, 1 September 2015, e della Grande Camera, Khlaifia and Others v. Italy [GC], no. 16483/12, 15 December 2016; rispettivamente Annuario 2016, p. 207 e Annuario 2017, p. 242) hanno già chiarito come la “detenzione di fatto” dei migranti in strutture di accoglienza (centri di assistenza temporanea di Lampedusa o navi alla fonda nel porto di Palermo) non rispetti i requisiti di legalità e legittimità fissati in forma tassativa dall’art. 5 CEDU alle limitazioni alla libertà personale. Secondo la Cassazione, “l’insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l’arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi dell’art. 5 CEDU”, e quindi la sua contrarietà all’art. 13 Cost. È escluso infatti che il trattenimento dei migranti sulla “Diciotti” possa essere inteso come “arresto o [...] detenzione regolar[e] di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione” (art. 5, lett. f) CEDU). Il carattere arbitrario della misura, non fondata su atti formali, comporta una violazione dell’art. 5 CEDU anche sul versante procedurale, in quanto le modalità scelte rendono la misura restrittiva della libertà personale non impugnabile in giustizia (art. 5.4 CEDU: “ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso a un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima”).

La Corte di Cassazione critica, dunque, la conclusione della Corte d’appello di Roma che non ha riscontrato nessuna negligenza o errore inescusabile nella condotta della amministrazione statale (Ministero dell’Interno) che per dieci giorni ha lasciato i ricorrenti in attesa di sbarco, in stato di detenzione di fatto, e in condizioni incompatibili con il rispetto della dignità individuale, nonostante l’evidente obbligo, derivante da esplicite norme internazionali, di provvedere al più presto alla loro presa in carico in un luogo sicuro (fosse questo il porto di Catania, dove la “Diciotti” è rimasta per cinque giorni, o qualunque altro porto italiano).

È vero che il Senato, nel 2020, ha votato l’immunità penale del Ministro dell’Interno, il senatore Salvini, per i reati connessi alla vicenda della nave “Diciotti”, tra cui il delitto di sequestro di persona. Tale decisione, insindacabile dal giudice, riguarda tuttavia solo la persona del Ministro e la sua responsabilità penale. Non può estendersi alla responsabilità della pubblica amministrazione per un danno ingiusto cagionato agli individui oggetto del fatto ingiusto, tanto più se il danno subito riguarda la lesione di un diritto inviolabile come quello alla libertà personale. Anche su questo punto la sentenza della Corte d’appello di Roma è censurata, in quanto invece di concentrarsi sulla distinzione tra responsabilità penale (del Ministro) e civile (dell’amministrazione dello Stato), sembra creare una (dubbia) separazione tra la responsabilità civile del ministro e quella dell’apparato amministrativo statale.

Il danno come conseguenza della privazione della libertà personale e il diritto al risarcimento 

Il danno non patrimoniale derivante dalla detenzione durata per circa dieci giorni, non giustificata da alcuna ragione giuridicamente apprezzabile e riconducibile a un errore dell’amministrazione, è dato dalle conseguenze personali e sociali del mancato rispetto del diritto alla libertà personale. Si tratta di un danno che non richiede un onere di prova particolarmente gravoso, essendo esperienza comune e agevolmente inferibile dai fatti il senso di umiliazione e le sofferenza psicologica connessa al dover subire una coercizione ingiusta della propria libertà.

Gli ultimi paragrafi della sentenza sono dedicati alla trattazione di una seconda difesa avanzata dallo Stato, i cui rappresentanti hanno segnalato che la Corte d’appello non aveva affrontato l’eccezione con sui si contestava che taluni dei ricorrenti fossero davvero dei naufraghi della “Diciotti”. La Cassazione non ritiene che il punto sia rilevante, poiché la sentenza impugnata aveva risolto la controversia su altre basi, e comunque la questione dell’identità della persona a cui dovrà essere eventualmente corrisposto il risarcimento potrà essere presentata al giudice del rinvio.

Conclusioni. Separare la dialettica politica dalle misure che incidono sui diritti umani

La sentenza della Cassazione ribadisce un punto che anche il giudice d’appello aveva risolto nello stesso modo: la decisione di non concedere il porto d’approdo alla nave “Diciotti” e divieto di sbarco imposto ai migranti che essa aveva tratto in salvo non sono atti politici, bensì atti amministrativi che si inseriscono in una procedura che il diritto internazionale e interno regolano in modo chiaro e sufficientemente preciso, avendo come principio-cardine la protezione della vita delle persone oggetto di salvataggio in mare e dei loro diritti fondamentali. Se ne discosta per l’avere adottato un approccio più rigoroso nel valutare gli obblighi delle autorità di governo nel dare seguito ai loro impegni internazionali nei riguardi degli individui titolari di diritti fondamentali, compreso quello alla libertà personale. Il perseguimento di obiettivi di politica migratoria a livello nazionale o internazionale non possono giustificare misure che si traducono in restrizioni illegittime ai diritti individuali. Se tali misure sono prese, lo Stato è tenuto a risarcire le vittime per il danno ingiusto da esse sofferto. La decisione della Cassazione è in larga misure debitrice della sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso Khalifia e Altri c. Italia. In tale occasione, l’equo indennizzo deciso dalla Corte di Strasburgo a favore delle persone oggetto di una detenzione “di fatto” per alcuni giorni contraria all’art. 5 CEDU era stato di 2500 euro a testa. Si suppone che anche il giudice di rinvio, nel caso pronunci una sentenza a favore di M.G.K., possa disporre un risarcimento a carico della Stato di analoga entità.

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